sabato 16 agosto 2008

Primo giorno - Sesta


Dove Adso ammira il portale della chiesa e Guglielmo
ritrova Ubertino da Casale





La chiesa non era maestosa come altre che vidi in seguito a Strasburgo, a Chartres, a Bamberga e a Parigi. Assomigliava piuttosto a quelle che già avevo visto in Italia, poco inclini a elevarsi vertiginosamente verso il cielo e saldamente posate a terra, spesso più larghe che alte; se non che a un primo livello essa era sormontata, come una rocca, da una serie di merli quadrati, e sopra a questo piano si elevava una seconda costruzione, più che una torre, una solida seconda chiesa, sovrastata da un tetto a punta e traforata di severe finestre. Robusta chiesa abbaziale come ne costruivano i nostri antichi in Provenza e Linguadoca, lontana dalle arditezze e dall'eccesso di ricami propri dello stile moderno, che solo in tempi più recenti, credo, si era arricchita, sopra il coro, di una guglia arditamente puntata verso la volta celeste.
Due colonne diritte e pulite antistavano l'ingresso, che appariva a prima vista come un solo grande arco: ma dalle colonne si dipartivano due contrafforti che, sormontati da altri e molteplici archi, conducevano lo sguardo, come nel cuore di un abisso, verso il portale vero e proprio, che si intravvedeva nell'ombra, sovrastato da un gran timpano, retto ai lati da due piedritti e al centro da un pilastro scolpito, che suddivideva l'entrata in due aperture, difese da porte di quercia rinforzate di metallo. In quell'ora del giorno il sole pallido batteva quasi a picco sul tetto e la luce cadeva di sghimbescio sulla facciata senza illuminare il timpano: così che, superate le due colonne, ci trovammo di colpo sotto la volta quasi silvestre delle arcate che si dipartivano dalla sequenza di colonne minori che proporzionalmente rinforzavano i contrafforti. Abituati finalmente gli occhi alla penombra, di colpo il muto discorso della pietra istoriata, accessibile com'era immediatamente alla vista e alla fantasia di chiunque (perché pictura est laicorum literatura), folgorò il mio sguardo e mi immerse in una visione di cui ancor oggi a stento la mia lingua riesce a dire.
Vidi un trono posto nel cielo e uno assiso sul trono. Il volto dell'Assiso era severo e impassibile, gli occhi spalancati e dardeggianti su di una umanità terrestre giunta alla fine della sua vicenda, i capelli e la barba maestosi che ricadevano sul volto e sul petto come le acque di un fiume, in rivoli tutti uguali e simmetricamente bipartiti. La corona che portava sul capo era ricca di smalti e di gemme, la tunica imperiale color porpora gli si disponeva in ampie volute sulle ginocchia, intessuta di ricami e merletti in fili d'oro e d'argento. La mano sinistra, ferma sulle ginocchia, teneva un libro sigillato, la destra si levava in attitudine non so se benedicente o minacciosa. Il volto era illuminato dalla tremenda bellezza di un nimbo cruciforme e fiorito, e vidi brillare intorno al trono e sopra il capo dell'Assiso un arcobaleno di smeraldo. Davanti al trono, sotto i piedi dell'Assiso, scorreva un mare di cristallo e intorno all'Assiso, intorno al trono e sopra il trono, quattro animali terribili - vidi - terribili per me che li guardavo rapito, ma docili e dolcissimi per l'Assiso, di cui cantavano le lodi senza riposo.
Ovvero, non tutti potevano dirsi terribili, perché bello e gentile mi apparve l'uomo che alla mia sinistra (e alla destra dell'Assiso) porgeva un libro. Ma orrenda mi parve dal lato opposto un'aquila, il becco dilatato, le piume irte disposte a lorìca, gli artigli possenti, le grandi ali aperte. E ai piedi dell'Assiso, sotto alle due prime figure, altre due, un toro e un leone, ciascuno dei due mostri serrando tra gli artigli e gli zoccoli un libro, il corpo volto all'esterno del trono ma il capo verso il trono, come torcendo le spalle e il collo in un impeto feroce, i fianchi palpitanti, gli arti di bestia che agonizzi, le fauci spalancate, le code avvolte e ritorte come serpenti e terminanti all'apice in lingue di fiamma. Entrambi alati, entrambi coronati da un nimbo, malgrado l'apparenza formidabile non erano creature dell'inferno, ma del cielo, e se tremendi apparivano era perché ruggivano in adorazione di un Venturo che avrebbe giudicato i vivi e i morti.
Attorno al trono, a fianco dei quattro animali e sotto i piedi dell'Assiso, come visti in trasparenza sotto le acque del mare di cristallo, quasi a riempire tutto lo spazio della visione, composti secondo la struttura triangolare del timpano, elevandosi da una base di sette più sette, poi a tre più tre e quindi a due più due, a lato del trono, stavano ventiquattro vegliardi, su ventiquattro piccoli troni, rivestiti di vesti bianche e coronati d'oro. Chi aveva in mano una viola, chi una coppa di profumi, e uno solo suonava, tutti gli altri rapiti in estasi, il volto rivolto all'Assiso di cui cantavano le lodi, le membra anch'esse contorte come quelle degli animali, in modo da poter tutti vedere l'Assiso, ma non in modo belluino, bensì con movenze di danza estatica - come dovette danzare Davide intorno all'arca - in modo che dovunque essi fossero le loro pupille, contro la legge che governava la statura dei corpi, convergessero nello stesso fulgidissimo punto. Oh, quale concento di abbandoni e di slanci, di posture innaturali eppure aggraziate, in quel mistico linguaggio di membra miracolosamente liberate dal peso della materia corporale, signata quantità infusa di nuova forma sostanziale, come se il sacro stuolo fosse battuto da un vento impetuoso, soffio di vita, frenesia di dilettazione, giubilo allelujatico divenuto prodigiosamente, da suono che era, immagine.
Corpi e membra abitati dallo Spirito, illuminati dalla rivelazione, sconvolti i volti dallo stupore, esaltati gli sguardi dall'entusiasmo, infiammate le gote dall'amore, dilatate le pupille dalla beatitudine, folgorato l'uno da una dilettosa costernazione, trafitto l'altro da un costernato diletto, chi trasfigurato dalla meraviglia, chi ringiovanito dal gaudio, eccoli tutti cantare con l'espressione dei visi, col panneggio delle tuniche, col piglio e la tensione degli arti, un cantico nuovo, le labbra semiaperte in un sorriso di lode perenne. E sotto i piedi dei vegliardi, e inarcati sopra di essi e sopra il trono e sopra il gruppo tetramorfo, disposti in bande simmetriche, a fatica distinguibili l'uno dall'altro tanto la sapienza dell'arte li aveva resi tutti mutuamente proporzionati, uguali nella varietà e variegati nell'unità, unici nella diversità e diversi nella loro atta coadunazione, in mirabile congruenza delle parti con dilettevole soavità di tinte, miracolo di consonanza e concordia di voci tra sé dissimili, compagine disposta a modo delle corde della cetra, consenziente e cospirante continuata cognazione per profonda e interna forza atta a operare l'univoco nel gioco stesso alterno degli equivoci, ornato e collazione di creature irreducibili a vicenda e a vicenda ridotte, opera di amorosa connessione retta da una regola celeste e mondana a un tempo (vincolo e stabile nesso di pace, amore, virtù, regime, potestà, ordine, origine, vita, luce, splendore, specie e figura), equalità numerosa risplendente per il rilucere della forma sopra le parti proporzionate della materia - ecco che si intrecciavano tutti i fiori e le foglie e i viticci e i cespi e i corimbi di tutte le erbe di cui si adornano i giardini della terra e del cielo, la viola, il citiso, la serpilla, il giglio, il ligustro, il narciso, la colocasia, l'acanto, il malobatro, la mirra e gli opobalsami.
Ma, mentre l'anima mia, rapita da quel concerto di bellezze terrene e di maestosi segnali soprannaturali, stava per esplodere in un cantico di gioia, l'occhio, accompagnando il ritmo proporzionato dei rosoni fioriti ai piedi dei vegliardi, cadde sulle figure che, intrecciate, facevano tutt'uno con il pilastro centrale che sosteneva il timpano. Cos'erano e che simbolico messaggio comunicavano quelle tre coppie di leoni intrecciati a croce trasversalmente disposta, rampanti come archi, puntando le zampe posteriori sul terreno e poggiando le anteriori sul dorso del proprio compagno, la criniera arruffata in volute anguiformi, la bocca aperta in un ringhio minaccioso, legati al corpo stesso del pilastro da una pasta, o un nido, di viticci? A calmare il mio spirito, come erano forse posti ad ammaestrare la natura diabolica dei leoni e a trasformarla in simbolica allusione alle cose superiori, sui lati del pilastro, erano due figure umane, innaturalmente lunghe quanto la stessa colonna e gemelle di altre due che simmetricamente da ambo i lati le fronteggiavano sui piedritti istoriati ai lati esterni, ove ciascuna delle porte di quercia aveva i propri stipiti: erano dunque quattro figure di vegliardi, dai cui parafernali riconobbi Pietro e Paolo, Geremia e Isaia, contorti anch'essi come in un passo di danza, le lunghe mani ossute levate a dita tese come ali, e come ali le barbe e i capelli mossi da un vento profetico, le pieghe delle vesti lunghissime agitate dalle lunghissime gambe dando vita a onde e volute, opposti ai leoni ma della stessa materia dei leoni. E mentre ritraevo l'occhio affascinato da quella enigmatica polifonia di membra sante e di lacerti infernali, vidi a lato del portale, e sotto le arcate profonde, talora istoriati sui contrafforti nello spazio tra le esili colonne che li sostenevano e adornavano, e ancora sulla folta vegetazione dei capitelli di ciascuna colonna, e di lì ramificandosi verso la volta silvestre delle multiple arcate, altre visioni orribili a vedersi, e giustificate in quel luogo solo per la loro forza parabolica e allegorica o per l'insegnamento morale che trasmettevano: e vidi una femmina lussuriosa nuda e scarnificata, rosa da rospi immondi, succhiata da serpenti, accoppiata a un satiro dal ventre rigonfio e dalle gambe di grifo coperte di ispidi peli, la gola oscena, che urlava la propria dannazione, e vidi un avaro, rigido della rigidità della morte sul suo letto sontuosamente colonnato, ormai preda imbelle di una coorte di demoni di cui uno gli strappava dalla bocca rantolante l'anima in forma di infante (ahimè mai più nascituro alla vita eterna), e vidi un orgoglioso cui un demone s'installava sulle spalle ficcandogli gli artigli negli occhi, mentre altri due golosi si straziavano in un corpo a corpo ripugnante, e altre creature ancora, testa di capro, pelo di leone, fauci di pantera, prigionieri in una selva di fiamme di cui quasi potevi sentire l'alito ardente. E intorno a loro, frammisti a loro, sopra di loro e sotto ai loro piedi, altri volti e altre membra, un uomo e una donna che si afferravano per i capelli, due aspidi che risucchiavano gli occhi di un dannato, un uomo ghignante che dilatava con le mani adunche le fauci di un'idra, e tutti gli animali del bestiario di Satana, riuniti a concistoro e posti a guardia e corona del trono che li fronteggiava, a cantarne la gloria con la loro sconfitta, fauni, esseri dal doppio sesso, bruti dalle mani con sei dita, sirene, ippocentauri, gorgoni, arpie, incubi, dracontopodi, minotauri, linci, pardi, chimere, cenoperi dal muso di cane che lanciavano fuoco dalle narici, dentetiranni, policaudati, serpenti pelosi, salamandre, ceraste, chelidri, colubri, bicipiti dalla schiena armata di denti, iene, lontre, cornacchie, coccodrilli, idropi dalle corna a sega, rane, grifoni, scimmie, cinocefali, leucroti, manticore, avvoltoi, parandri, donnole, draghi, upupe, civette, basilischi, ypnali, presteri, spectafichi, scorpioni, sauri, cetacei, scitali, anfisbene, jaculi, dipsadi, ramarri, remore, polipi, murene e testuggini. L'intera popolazione degli inferi pareva essersi data convegno per far da vestibolo, selva oscura, landa disperata dell'esclusione, all'apparizione dell'Assiso del timpano, al suo volto promettente e minaccioso, essi, gli sconfitti dell'Armageddon, di fronte a chi verrà a separare definitivamente i vivi dai morti. E tramortito (quasi) da quella visione, incerto ormai se mi trovassi in un luogo amico o nella valle del giudizio finale, sbigottii, e a stento trattenni il pianto, e mi parve di udire (o udii davvero?) quella voce e vidi quelle visioni che avevano accompagnato la mia fanciullezza di novizio, le mie prime letture dei libri sacri e le notti di meditazione nel coro di Melk, e nel deliquio dei miei sensi debolissimi e indeboliti udii una voce potente come di tromba che diceva “quello che vedi scrivilo in un libro” (e questo ora sto facendo), e vidi sette lampade d'oro e in mezzo alle lampade Uno simile a figlio d'uomo, cinto al petto con una fascia d'oro, candidi la testa e i capelli come lana candida, gli occhi come fiamma di fuoco, i piedi come bronzo ardente nella fornace, la voce come il fragore di molte acque, teneva nella destra sette stelle e dalla bocca gli usciva una spada a doppio taglio. E vidi una porta aperta nel cielo e Colui che era assiso mi parve come diaspro e sardonio e un'iride avvolgeva il trono e dal trono uscivano lampi e tuoni. E l'Assiso prese nelle mani una falce affilata e gridò: “Vibra la tua falce e mieti, è giunta l'ora di mietere perché è matura la messe della terra”; e Colui che era assiso vibrò la sua falce e la terra fu mietuta.
Fu allora che compresi che d'altro non parlava la visione, se non di quanto stava avvenendo nell'abbazia e avevamo colto dalle labbra reticenti dell'Abate - e quante volte nei giorni seguenti non tornai a contemplare il portale, sicuro di vivere la vicenda stessa che esso raccontava. E compresi che ivi eravamo saliti per essere testimoni di una grande e celeste carneficina.
Tremai, come fossi bagnato dalla pioggia gelida d'inverno. E udii un'altra voce ancora, ma questa volta essa veniva dalle mie spalle ed era una voce diversa, perché partiva dalla terra e non dal centro sfolgorante della mia visione; e anzi spezzava la visione perché anche Guglielmo (a quel punto mi riavvidi della sua presenza), sino ad allora perduto anch'egli nella contemplazione, si volgeva come me.

L'essere alle nostre spalle pareva un monaco, anche se la tonaca sudicia e lacera lo faceva assomigliare piuttosto a un vagabondo, e il suo volto non era dissimile da quello dei mostri che avevo appena visto sui capitelli. Non mi è mai accaduto in vita, come invece accadde a molti miei confratelli, di essere visitato dal diavolo, ma credo che se esso dovesse apparirmi un giorno, incapace per decreto divino di celare appieno la sua natura anche quando volesse farsi simile all'uomo, esso non avrebbe altre fattezze di quelle che mi presentava in quell'istante il nostro interlocutore. La testa rasata, ma non per penitenza, bensì per l'azione remota di qualche viscido eczema, la fronte bassa, ché se egli avesse avuto capelli sul capo essi si sarebbero confusi con le sopracciglia (che aveva dense e incolte), gli occhi erano rotondi, con le pupille piccole e mobilissime, e lo sguardo non so se innocente o maligno, e forse entrambe le cose, a tratti e in momenti diversi. Il naso non poteva dirsi tale se non perché un osso si dipartiva dalla metà degli occhi, ma come si staccava dal volto subito ne rientrava, trasformandosi in null'altro che due oscure caverne, narici amplissime e folte di peli. La bocca, unita alle narici da una cicatrice, era ampia e sgraziata, più estesa a destra che a sinistra, e tra il labbro superiore, inesistente, e l'inferiore, prominente e carnoso, emergevano con ritmo irregolare denti neri e aguzzi come quelli di un cane.
L'uomo sorrise (o almeno così credetti) e levando il dito come per ammonire, disse:
“Penitenziagite! Vide quando draco venturus est a rodegarla l'anima tua! La mortz est super nos! Prega che vene lo papa santo a liberar nos a malo de todas le peccata! Ah ah, ve piase ista negromanzia de Domini Nostri Iesu Christi! Et anco jois m'es dols e plazer m'es dolors... Cave el diabolo! Semper m'aguaita in qualche canto per adentarme le carcagna. Ma Salvatore non est insipiens! Bonum monasterium, et aqui se magna et se priega dominum nostrum. Et el resto valet un figo seco. Et amen.No?”
Dovrò, nel prosieguo di questa storia, parlare ancora, e molto, di questa creatura e riferirne i discorsi. Confesso che mi riesce molto difficile farlo perché non saprei dire ora, come non compresi mai allora, che genere di lingua egli parlasse. Non era il latino, in cui ci esprimevamo tra uomini di lettere all'abbazia, non era il volgare di quelle terre, né altro volgare che mai avessi udito. Credo di avere dato una pallida idea del suo modo di parlare riferendo poco sopra (così come me le ricordo) le prime parole che udii da lui. Quando più tardi appresi della sua vita avventurosa e dei vari luoghi in cui era vissuto, senza trovar radici in alcuno, mi resi conto che Salvatore parlava tutte le lingue, e nessuna. Ovvero si era inventata una lingua propria che usava i lacerti delle lingue con cui era entrato in contatto - e una volta pensai che la sua fosse, non la lingua adamica che l'umanità felice aveva parlato, tutti uniti da una sola favella, dalle origini del mondo sino alla Torre di Babele, e nemmeno una delle lingue sorte dopo il funesto evento della loro divisione, ma proprio la lingua babelica del primo giorno dopo il castigo divino, la lingua della confusione primeva. Né d'altra parte potrei chiamare lingua la favella di Salvatore, perché in ogni lingua umana vi sono delle regole e ogni termine significa ad placitum una cosa, secondo una legge che non muta, perché l'uomo non può chiamare il cane una volta cane e una volta gatto, né pronunciare suoni a cui il consenso delle genti non abbia assegnato un senso definito, come accadrebbe a chi dicesse la parola “blitiri”. E tuttavia, bene o male, io capivo cosa Salvatore volesse intendere, e così gli altri. Segno che egli parlava non una, ma tutte le lingue, nessuna nel modo giusto, prendendo le sue parole ora dall'una ora dall'altra. Mi avvidi pure in seguito che egli poteva nominare una cosa ora in latino ora in provenzale, e mi resi conto che, più che inventare le proprie frasi, egli usava disiecta membra di altre frasi, udite un giorno, a seconda della situazione e delle cose che voleva dire, come se riuscisse a parlare di un cibo, intendo, solo con le parole delle genti presso cui aveva mangiato quel cibo, ed esprimere la sua gioia solo con sentenze che aveva udito emettere da gente gioiosa, il giorno che egli aveva provato parimenti gioia. Era come se la sua favella fosse quale la sua faccia, messa insieme con pezzi di facce altrui, o come vidi talora dei preziosi reliquiari (si licet magnis componere parva, o alle cose divine le diaboliche) che nascevano dai detriti di altri oggetti sacri. In quel momento, in cui lo incontrai per la prima volta, Salvatore mi apparve, e per il volto, e per il modo di parlare, un essere non dissimile dagli incroci pelosi e ungulati che avevo appena visto sotto il portale. Più tardi mi accorsi che l'uomo era forse di buon cuore e di umore faceto. Più tardi ancora... Ma andiamo per ordine. Anche perché, non appena egli ebbe parlato, il mio maestro lo interrogò con molta curiosità.
“Perché hai detto penitenziagite?” chiese.
“Domine frate magnificentisimo,” rispose Salvatore con una sorta di inchino, “Jesus venturus est et li homini debent facere penitentia. No?”
Guglielmo lo guardò fissamente: “Sei venuto qui da un convento di minoriti?”
“No intendo.”
“Chiedo se sei vissuto tra i frati di santo Francesco, chiedo se hai conosciuto i cosiddetti apostoli...”
Salvatore impallidì, ovvero il suo volto abbronzato e belluino divenne grigio. Fece un profondo inchino, pronunciò a mezze labbra un “vade retro”, si segnò devotamente e fuggì voltandosi indietro ogni tanto.
“Cosa gli avete chiesto?” domandai a Guglielmo.
Egli restò un poco soprappensiero. “Non importa, te lo dirò dopo. Ora entriamo. Voglio trovare Ubertino.”
Era da poco trascorsa l'ora sesta. Il sole, pallido, penetrava da occidente, e quindi da poche e sottili finestre, nell'interno della chiesa. Una striscia sottile di luce toccava ancora l'altare maggiore, il cui paliotto mi parve rilucere di un fulgore aureo. Le navate laterali erano immerse nella penombra.
Presso all'ultima cappella prima dell'altare, nella navata di sinistra, si ergeva una esile colonna su cui stava una Vergine in pietra, scolpita nello stile dei moderni, dal sorriso ineffabile, il ventre prominente, il bambino in braccio, vestita di un abito grazioso, con un sottile corsetto. Ai piedi della Vergine, in preghiera, quasi prostrato, stava un uomo, vestito con gli abiti dell'ordine cluniacense.
Ci appressammo. L'uomo, udendo il rumore dei nostri passi, alzò il volto. Era un vegliardo, col volto glabro, il cranio senza capelli, i grandi occhi celesti, una bocca sottile e rossa, la pelle candida, il teschio ossuto a cui la pelle aderiva come fosse una mummia conservata nel latte. Le mani erano bianche, dalle dita lunghe e sottili. Sembrava una fanciulla avvizzita da una morte precoce. Posò su di noi uno sguardo dapprima smarrito, come lo avessimo disturbato in una visione estatica, poi il volto gli si illuminò di gioia.
“Guglielmo!” esclamò. “Fratello mio carissimo!” Si alzò a fatica e si fece incontro al mio maestro, abbracciandolo e baciandolo sulla bocca. “Guglielmo!” ripeté, e gli occhi gli si inumidirono di pianto. “Quanto tempo! Ma ti riconosco ancora! Quanto tempo, quante vicende! Quante prove che il Signore ci ha imposto!” Pianse. Guglielmo gli rese l'abbraccio, evidentemente commosso. Ci trovavamo davanti a Ubertino da Casale.
Di lui avevo già sentito parlare e a lungo, anche prima di venire in Italia, e ancor più frequentando i francescani della corte imperiale. Qualcuno mi aveva persino detto che il più grande poeta di quei tempi, Dante Alighieri da Firenze, morto da pochi anni, aveva composto un poema (che io non potei leggere perché era scritto nel volgare toscano) a cui avevano posto mano e cielo e terra, e di cui molti versi altro non erano che una parafrasi di brani scritti da Ubertino nel suo Arbor vitae crucifixae. Né questo era il solo titolo di merito di quell'uomo famoso. Ma per permettere al mio lettore di capire meglio l'importanza di quell'incontro, dovrò cercare di ricostruire le vicende di quegli anni, così come le avevo comprese e durante il mio breve soggiorno nell'Italia centrale, da parole sparse del mio maestro, e ascoltando i molti colloqui che Guglielmo aveva avuto con abati e monaci nel corso del nostro viaggio.
Cercherò di dirne cosa avevo capito, anche se non son sicuro di dire bene queste cose. I miei maestri di Melk mi avevano detto sovente che è molto difficile per un nordico farsi idee chiare sulle vicende religiose e politiche d'Italia.
La penisola, in cui la potenza del clero era evidente più che in ogni altro paese, e in cui più che in ogni altro paese il clero ostentava potenza e ricchezza, aveva generato da almeno due secoli movimenti di uomini intesi a una vita più povera, in polemica coi preti corrotti, di cui rifiutavano persino i sacramenti, riunendosi in comunità autonome, al tempo stesso invise ai signori, all'impero e alle magistrature cittadine.
Infine era venuto santo Francesco, e aveva diffuso un amore di povertà che non contraddiceva ai precetti della chiesa, e per opera sua la chiesa aveva accolto il richiamo alla severità dei costumi di quegli antichi movimenti e li aveva purificati dagli elementi di disordine che si annidavano in essi. Avrebbe dovuto seguirne un'epoca di mitezza e santità, ma, come l'ordine francescano cresceva e attirava a sé gli uomini migliori, esso diveniva troppo potente e legato ad affari terreni, e molti francescani vollero riportarlo alla purezza di un tempo. Cosa assai difficile per un ordine che ai tempi in cui ero all'abbazia già contava più di trentamila membri sparsi in tutto il mondo. Ma così è, e molti di questi frati di san Francesco si opponevano alla regola che l'ordine si era data, dicendo che l'ordine aveva ormai assunto i modi di quelle istituzioni ecclesiastiche per riformare le quali era nato. E che questo era già avvenuto ai tempi in cui Francesco era in vita, e che le sue parole e i suoi propositi erano stati traditi. Molti di essi riscoprirono allora il libro di un monaco cistercense che aveva scritto agli inizi del XII secolo dell'era nostra, chiamato Gioacchino e a cui si attribuiva spirito di profezia. Infatti egli aveva previsto l'avvento di un'era nuova, in cui lo spirito di Cristo, da tempo corrotto a opera dei suoi falsi apostoli, si sarebbe di nuovo realizzato sulla terra. E aveva annunciato tali scadenze che a tutti era parso chiaro che egli parlasse senza saperlo dell'ordine francescano. E di questo molti francescani si erano assai rallegrati, pare sin troppo, tanto che a metà secolo a Parigi i dottori della Sorbona condannarono le proposizioni di quell'abate Gioacchino, ma pare che lo fecero perché i francescani (e i domenicani) stavano diventando troppo potenti, e sapienti, nell'università di Francia, e si voleva eliminarli come eretici. Il che poi non si fece e fu un gran bene per la chiesa, perché ciò permise che fossero divulgate le opere di Tommaso d'Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio, che certo non erano eretici. Dove si vede che anche a Parigi le idee erano confuse, o qualcuno voleva confonderle per fini suoi. E questo è il male che l'eresia fa al popolo cristiano, che rende oscure le idee e spinge tutti a diventare inquisitori per il proprio bene personale. Che poi quanto vidi all'abbazia (e di cui dirò dopo) mi ha fatto pensare che spesso sono gli inquisitori a creare gli eretici. E non solo nel senso che se li figurano quando non ci sono, ma che reprimono con tanta veemenza la tabe eretica da spingere molti a farsene partecipi, in odio a loro. Davvero, un circolo immaginato dal demonio, che Dio ci salvi.
Ma dicevo dell'eresia (se pur tale fosse stata) gioachimita. E si vide in Toscana un francescano, Gerardo da Borgo San Donnino, farsi voce delle predizioni di Gioacchino e impressionar molto l'ambiente dei minori. Sorse così tra loro una schiera di sostenitori della regola antica, contro la riorganizzazione dell'ordine tentata dal grande Bonaventura, che ne era poi divenuto generale. Nell'ultimo trentennio del secolo scorso, quando il concilio di Lione, salvando l'ordine francescano contro chi lo voleva abolire, gli concesse la proprietà di tutti i beni che aveva in uso, come già era di legge per gli ordini più antichi, alcuni frati nelle Marche si ribellarono, perché ritenevano che lo spirito della regola fosse stato definitivamente tradito, in quanto un francescano non deve possedere nulla, né personalmente, né come convento, né come ordine. Li misero in prigione a vita. Non mi pare che predicassero cose contrarie al vangelo, ma quando entra in gioco il possesso delle cose terrene è difficile che gli uomini ragionino secondo giustizia. Mi dissero che anni dopo, il nuovo generale dell'ordine, Raimondo Gaufredi, trovasse questi prigionieri ad Ancona e, liberandoli, dicesse: “Volesse Dio che tutti noi e tutto l'ordine fossimo macchiati di tale colpa.” Segno che non è vero quel che dicono gli eretici e nella chiesa abitano ancora uomini di grande virtù.
C'era tra questi prigionieri liberati, Angelo Clareno, che si incontrò poi con un frate di Provenza, Pietro di Giovanni Olivi, che predicava le profezie di Gioacchino e poi con Ubertino da Casale, e di lì nacque il movimento degli spirituali. Saliva in quegli anni al soglio pontificio un eremita santissimo, Pietro da Morrone, che regnò come Celestino V, e costui fu accolto con sollievo dagli spirituali: “Apparirà un santo,” era stato detto, “e osserverà gli insegnamenti di Cristo, sarà di angelica vita, tremate prelati corrotti.” Forse Celestino era di troppa angelica vita, o i prelati intorno a lui eran troppo corrotti, o non riusciva a sopportare la tensione di una guerra ormai troppo lunga con l'imperatore e con gli altri re d'Europa; fatto è che Celestino rinunciò alla sua dignità e si ritirò in romitaggio. Ma nel breve periodo del suo regno, meno di un anno, le speranze degli spirituali furono tutte soddisfatte: essi andarono da Celestino che fondò con loro la comunità detta dei fratres et pauperes heremitae domini Celestini. D'altra parte, mentre il papa doveva funger da mediatore tra i più potenti cardinali di Roma, ve ne furono alcuni come un Colonna e un Orsini, che segretamente sostenevano le nuove tendenze di povertà: scelta invero assai curiosa per uomini potentissimi che vivevano tra agi e ricchezze smodate, e non ho mai capito se semplicemente usassero degli spirituali per i loro fini di governo o in qualche modo si ritenessero giustificati nella loro vita carnale dal sostenere le tendenze spirituali; e forse erano vere entrambe le cose, per quel poco che io capisco delle cose italiane. Ma proprio per fare un esempio, Ubertino era stato accolto come cappellano dal cardinale Orsini quando, divenuto il più ascoltato degli spirituali, correva rischio di essere accusato come eretico. E lo stesso cardinale gli aveva fatto scudo ad Avignone.
Come avviene però in tali casi, da un lato Angelo e Ubertino predicavano secondo dottrina, dall'altro grandi masse di semplici accettavano questa loro predicazione e si diffondevano per il paese, al di là di ogni controllo. Così l'Italia fu invasa da questi fraticelli o frati dalla povera vita che parvero pericolosi a molti. Ormai era difficile distinguere i maestri spirituali, che tenevano contatto con le autorità ecclesiastiche, e i loro seguaci più semplici, che semplicemente ormai vivevano fuori dell'ordine, chiedendo l'elemosina e vivendo giorno per giorno del lavoro delle loro mani, senza trattenere proprietà alcuna. E questi sono coloro che la voce pubblica ormai chiamava fraticelli, non dissimili dai beghini francesi, che si ispiravano a Pietro di Giovanni Olivi.
Celestino V fu sostituito da Bonifacio VIII e questo papa si affrettò a dimostrare scarsissima indulgenza per spirituali e fraticelli in genere: proprio negli ultimi anni del secolo che moriva segnò una bolla, Firma cautela, con cui condannava in un sol colpo bizochi, girovaghi questuanti che si aggiravano al limite estremo dell'ordine francescano, e gli stessi spirituali, ovvero coloro che si sottraevano alla vita dell'ordine per darsi all'eremo.
Gli spirituali tentarono poi di ottenere il consenso di altri pontefici, come Clemente V, per potersi staccare dall'ordine in modo non violento. Credo ci sarebbero riusciti, ma l'avvento di Giovanni XXII tolse loro ogni speranza. Come fu eletto nel 1316 egli scrisse al re di Sicilia perché espellesse questi frati dalle sue terre, perché molti si erano rifugiati laggiù: e fece mettere in ceppi Angelo Clareno e gli spirituali di Provenza.
Non deve essere stata un'impresa facile e molti nella curia vi resistevano. Il fatto è che Ubertino e Clareno riuscirono a essere lasciati liberi di abbandonare l'ordine e furono accolti l'uno dai benedettini e l'altro dai celestini. Ma per quelli che rimasero a condurre la loro vita libera, Giovanni fu spietato e li fece perseguitare dall'inquisizione e molti furono bruciati.
Egli aveva capito però che per distruggere la mala pianta dei fraticelli, che minavano alle basi l'autorità della chiesa, bisognava condannare le proposizioni su cui essi basavano la loro fede. Essi sostenevano che Cristo e gli apostoli non avevano avuto alcuna proprietà né individuale né in comune, e il papa condannò come eretica questa idea. Cosa stupefacente, perché non si vede perché mai un papa debba ritenere perversa l'idea che Cristo fosse povero: ma è che proprio un anno prima si era svolto il capitolo generale dei francescani a Perugia, che aveva sostenuto questa opinione, e condannando gli uni il papa condannava anche l'altro. Come ho già detto, il capitolo arrecava gran pregiudizio alla sua lotta contro l'imperatore, questo è il fatto. Così da allora molti fraticelli, che non sapevano nulla né di impero né di Perugia, morirono bruciati.

Queste cose pensavo guardando un personaggio leggendario come Ubertino. Il mio maestro mi aveva presentato e il vecchio mi aveva accarezzato una gota, con una mano calda, quasi ardente. Al tocco di quella mano avevo capito molte delle cose che avevo udito su quel sant'uomo e altre che avevo letto nelle pagine di Arbor Vitae, comprendevo il fuoco mistico che lo aveva divorato sin dalla giovinezza quando, pur studiando a Parigi, si era ritratto dalle speculazioni teologiche e aveva immaginato di essere trasformato nella penitente Maddalena; e i rapporti intensissimi che aveva avuto con la santa Angela da Foligno dalla quale era stato iniziato ai tesori della vita mistica e all'adorazione della croce; e perché i suoi superiori un giorno, preoccupati dall'ardore della sua predicazione, lo avessero inviato in ritiro alla Verna.
Scrutavo quel volto, dai tratti dolcissimi come quelli della santa con cui era stato in fraterno commercio di spiritualissimi sensi. Intuivo che doveva aver saputo assumere tratti ben più duri quando nel 1311 il concilio di Vienne, con la decretale Exivi de paradiso aveva eliminato i superiori francescani ostili agli spirituali, ma aveva imposto a questi di vivere in pace in seno all'ordine, e questo campione della rinuncia non aveva accettato quell'accorto compromesso e si era battuto perché fosse costituito un ordine indipendente, ispirato al massimo del rigore. Questo gran combattente aveva allora perduto la sua battaglia, perché in quegli anni Giovanni XXII propugnava una crociata contro i seguaci di Pietro di Giovanni Olivi (tra cui lui stesso era annoverato) e condannava i frati di Narbona e Béziers. Ma Ubertino non aveva esitato a difendere di fronte al papa la memoria dell'amico, e il papa, soggiogato dalla sua santità, non aveva osato condannare lui (anche se aveva poi condannato gli altri). In quell'occasione anzi gli aveva offerto una via di salvezza prima consigliandogli e poi ordinandogli di entrare nell'ordine cluniacense. Ubertino, che doveva essere altresì abile (lui apparentemente così disarmato e fragile) nel conquistarsi protezioni e alleanze nella corte pontificia, aveva sì accettato di entrare nel monastero di Gemblach nelle Fiandre, ma credo non ci fosse mai neppure andato, ed era rimasto ad Avignone, sotto le insegne del cardinale Orsini, a difendere la causa dei francescani.
Solo negli ultimi tempi (e le voci che avevo udito erano imprecise) la sua fortuna a corte era tramontata, si era dovuto allontanare da Avignone mentre il papa faceva inseguire quest'uomo indomabile come eretico che per mundum discurrit vagabundus. Di lui, si diceva, non si aveva più traccia. Nel pomeriggio avevo appreso, dal dialogo tra Guglielmo e l'Abate, che egli era ora nascosto in questa abbazia. E ora lo vedevo davanti a me.
“Guglielmo,” stava dicendo, “erano sul punto di uccidermi, sai, ho dovuto fuggire nottetempo.”
“Chi ti voleva morto? Giovanni?”
“No. Giovanni non mi ha mai amato, ma mi ha sempre rispettato. In fondo è lui che mi ha offerto un modo di sfuggire al processo, dieci anni fa, imponendomi di entrare nei benedettini, e con questo metteva a tacere i miei nemici. Hanno mormorato a lungo, ironizzavano sul fatto che un campione della povertà entrasse in un ordine così ricco, e vivesse alla corte del cardinale Orsini... Guglielmo, tu sai quanto tenga alle cose di questa terra! Ma era il modo di restare ad Avignone e difendere i miei confratelli. Il papa ha timore dell'Orsini, non mi avrebbe mai torto un capello. Ancora tre anni fa mi ha mandato messaggero dal re di Aragona.”
“E allora chi ti voleva male?”
“Tutti. La curia. Hanno tentato di assassinarmi due volte. Hanno tentato di farmi tacere. Tu sai cosa è avvenuto cinque anni fa. Erano stati condannati da due anni i beghini di Narbona e Berengario Talloni, che pure era uno dei giudici, si era appellato al papa. Erano momenti difficili, Giovanni aveva già emesso due bolle contro gli spirituali e lo stesso Michele da Cesena aveva ceduto - a proposito, quando arriva?”
“Sarà qui tra due giorni.”
“Michele... E' tanto che non lo vedo. Ora si è ravveduto, capisce cosa volevamo, il capitolo di Perugia ci ha dato ragione. Ma allora, ancora nel 1318 ha ceduto al papa e gli ha messo nelle mani cinque spirituali di Provenza che resistevano alla sottomissione. Bruciati, Guglielmo... Oh, è orribile!” Si nascose il capo tra le mani.
“Ma cosa è avvenuto esattamente dopo l'appello del Talloni?” chiese Guglielmo.
“Giovanni doveva riaprire il dibattito, capisci? Doveva, perché anche in curia c'erano uomini presi dal dubbio, anche i francescani della curia - farisei, sepolcri imbiancati, pronti a vendersi per una prebenda, ma erano presi dal dubbio. Fu allora che Giovanni mi chiese di stendere una memoria sulla povertà. Fu una cosa bella,Guglielmo, Dio mi perdoni la superbia...”
“L'ho letta, Michele me l'ha mostrata.”
“C'erano i titubanti, anche tra i nostri, il provinciale di Aquitania, il cardinale di San Vitale, il vescovo di Caffa...”
“Un imbecille,” disse Guglielmo.
“Riposi in pace, è volato a Dio due anni fa.”
“Dio non è stato così misericordioso. Fu una falsa notizia arrivata da Costantinopoli. E' ancora tra noi, mi dicono che farà parte della legazione. Dio ci protegga!”
“Ma è favorevole al capitolo di Perugia,” disse Ubertino.
“Appunto. Appartiene a quella razza di uomini che sono sempre i migliori campioni del loro avversario.”
“A dire il vero,” disse Ubertino, “anche allora non giovò molto alla causa. E poi tutto finì in un nulla di fatto, ma almeno non si stabilì che l'idea era eretica, e questo fu importante. Per ciò gli altri non mi hanno mai perdonato. Hanno cercato di nuocermi in tutti i modi, hanno detto che fui a Sachsenhausen quando Ludovico tre anni fa proclamò Giovanni eretico. Eppure tutti sapevano che in luglio ero ad Avignone con l'Orsini... Trovarono che parti della dichiarazione dell'imperatore riflettevano le mie idee, che follia.”
“Mica tanto,” disse Guglielmo. “Le idee gliele avevo date io, traendole dalla tua dichiarazione di Avignone, e da alcune pagine dell'Olivi.”
“Tu?” esclamò, tra stupefatto e gioioso, Ubertino, “ma allora mi dai ragione!”
Guglielmo apparve imbarazzato: “Erano buone idee per l'imperatore, in quel momento,” disse evasivamente.
Ubertino lo guardò con diffidenza. “Ah, ma tu non ci credi veramente, vero?”
“Racconta ancora,” disse Guglielmo, “racconta come ti sei salvato da quei cani.”
“Oh sì, cani, Guglielmo. Cani rabbiosi. Mi trovai a combattere con lo stesso Bonagrazia, sai?”
“Ma Bonagrazia da Bergamo è con noi!”
“Ora, dopo che io gli ebbi parlato a lungo. Solo a quel punto si convinse e protestò contro la Ad conditorem canonum. E il papa lo ha imprigionato per un anno.”
“Ho sentito che ora è vicino a un mio amico che è alla curia, Guglielmo di Occam.”
“L'ho conosciuto poco. Non mi piace. Un uomo senza fervore, tutta testa, niente cuore.”
“Ma è una bella testa.”
“Può darsi, e lo porterà all'inferno.”
“Allora lo rivedrò laggiù, e discuteremo di logica.”
“Taci Guglielmo,” disse Ubertino sorridendo con intenso affetto, “tu sei migliore dei tuoi filosofi. Se solo avessi voluto...”
“Cosa?”
“Quando ci vedemmo l'ultima volta in Umbria? Ricordi? Ero stato appena guarito dai miei mali per l'intercessione di quella donna meravigliosa... Chiara da Montefalco...” mormorò col volto radioso, “Chiara... Quando la natura femminile, per sua natura così perversa, si sublima nella santità, allora sa farsi il più alto veicolo della grazia. Sai come la mia vita sia stata ispirata alla castità più pura, Guglielmo,” (lo stava afferrando per un braccio, convulsamente) “sai con quale... feroce - sì, è la parola giusta - con quale feroce sete di penitenza ho tentato di mortificare in me i palpiti della carne, per farmi una sola trasparenza all'amore di Gesù Crocifisso... Eppure tre donne nella mia vita sono state per me tre messaggeri celesti. Angela da Foligno, Margherita da Città di Castello (che mi anticipò la fine del mio libro quando io non ne avevo scritto che un terzo), e infine Chiara da Montefalco. Fu un premio del cielo che io, proprio io, dovessi indagare sui suoi miracoli e proclamarne la santità alle folle, prima che santa madre chiesa si muovesse. E tu eri laggiù Guglielmo, e potevi aiutarmi in quella santa impresa, e non volesti...”
“Ma la santa impresa a cui mi invitavi era quella di mandare al rogo Bentivenga, Jacomo e Giovannuccio,” disse piano Guglielmo.
“Stavano offuscando la memoria di lei, con le loro perversioni. E tu eri inquisitore!”
“E proprio allora chiesi di essere sollevato da quell'incarico. La storia non mi piaceva. Non mi piacque, sarò franco, neppure il modo in cui inducesti Bentivenga a confessare i suoi errori. Hai fatto finta di volere entrare nella sua setta, se setta era, gli hai carpito i suoi segreti e lo hai fatto arrestare.”
“Ma così si procede contro i nemici di Cristo! Erano eretici, erano pseudo apostoli, puzzavano dello zolfo di fra Dolcino!”
“Erano gli amici di Chiara.”
“No Guglielmo, non sfiorare neppure con un'ombra la memoria di Chiara!”
“Ma circolavano nel suo gruppo...”
“Erano minoriti, si dicevano spirituali, e invece erano frati della comunità! Ma lo sai che fu chiaro, all'inchiesta, che Bentivenga da Gubbio si proclamava apostolo, e poi con Giovannuccio da Bevagna seduceva le monache dicendo loro che l'inferno non esiste, che si possono soddisfare desideri carnali senza offendere Dio, che si può ricevere il corpo di Cristo (Signore perdonami!) dopo aver giaciuto con una monaca, che al Signore fu più accetta Maddalena della vergine Agnese, che ciò che il volgo chiama demonio è Dio stesso, perché il demone è la sapienza e Dio è appunto sapienza! E fu la beata Chiara, dopo aver udito questi discorsi, ad avere quella visione in cui Dio stesso le disse che quelli erano malvagi seguaci dello Spiritus Libertatis!”
“Erano minoriti con la mente accesa dalle stesse visioni di Chiara, e spesso il passo tra visione estatica e frenesia di peccato è minimo,” disse Guglielmo.
Ubertino gli strinse le mani e gli occhi gli si velarono ancora di pianto: “Non dire questo, Guglielmo. Come puoi confondere il momento dell'amore estatico, che ti brucia le viscere col profumo dell'incenso, e lo sregolamento dei sensi che sa di zolfo? Bentivenga istigava a toccare le nude membra di un corpo, affermava che solo così si ottiene la liberazione dall'impero dei sensi, homo nudus cum nuda iacebat...”
“Et non commiscebantur ad invicem...”
“Bugie! Cercavano il piacere, se lo stimolo carnale si faceva sentire, essi non reputavano peccato che per quietarlo uomo e donna giacessero insieme, e l'uno toccasse e baciasse l'altro in ogni parte, e quello congiungesse il suo ventre nudo col ventre nudo di questa!”
Confesso che il modo con cui Ubertino stigmatizzava il vizio altrui non mi induceva a pensieri virtuosi. Il mio maestro dovette accorgersi che ero turbato, e interruppe il santo uomo.
“Sei uno spirito ardente, Ubertino, nell'amore di Dio come nell'odio contro il male. Quello che volevo dire è che c'è poca differenza tra l'ardore dei Serafini e l'ardore di Lucifero, perché nascono sempre da un'accensione estrema della volontà.”
“Oh, la differenza c'è, e io la so!” disse ispirato Ubertino. “Tu vuoi dire che tra volere il bene e volere il male c'è un piccolo passo, perché si tratta sempre di dirigere la stessa volontà. Questo è vero. Ma la differenza è nell'oggetto, e l'oggetto è riconoscibile limpidamente. Di qui Dio, di là il diavolo.”
“E io temo di non saper più distinguere, Ubertino. Non fu la tua Angela da Foligno a raccontare di quel giorno che, rapita in ispirito, stette nel sepolcro di Cristo? Non disse come dapprima ne baciò il petto e lo vide giacere con gli occhi chiusi, poi baciò la sua bocca e sentì salire da quelle labbra un inenarrabile odore di dolcezze, e dopo una breve pausa posò la sua gota sulla gota di Cristo e il Cristo avvicinò la sua mano alla gota di lei e la strinse a sé e - essa così disse - la sua letizia diventò altissima?...”
“Che c'entra questo con l'impeto dei sensi?” domandò Ubertino. “Fu esperienza mistica, e il corpo era quello di Nostro Signore.”
“Forse mi sono abituato a Oxford,” disse Guglielmo, “dove anche l'esperienza mistica era di altro genere...”
“Tutta nella testa,” sorrise Ubertino.
“O negli occhi. Dio sentito come luce, nei raggi del sole, nelle immagini degli specchi, nel diffondersi dei colori sopra le parti della materia ordinata, nei riflessi del giorno sulle foglie bagnate... Non è questo amore più vicino a quello di Francesco quando loda Dio nelle sue creature, fiori, erbe, acqua, aria? Non credo che da questo tipo di amore possa venire alcuna insidia. Mentre non mi piace un amore che trasferisce nel colloquio con l'Altissimo i brividi che si provano nei contatti della carne...”
“Tu bestemmi Guglielmo! Non è la stessa cosa. C'è un salto, immenso, verso il basso, tra l'estasi del cuore amante di Gesù Crocifisso e l'estasi corrotta degli pseudo apostoli di Montefalco...”
“Non erano pseudo apostoli, erano fratelli del Libero Spirito, l'hai detto tu stesso.”
“E che differenza fa? Tu non hai saputo tutto di quel processo, io stesso non ho ardito mettere agli atti certe confessioni, per non sfiorare neppure per un istante con l'ombra del demonio l'atmosfera di santità che Chiara aveva creato in quel luogo. Ma ho saputo certe cose, certe cose, Guglielmo! Si riunivano nottetempo in una cantina, prendevano un fanciullo appena nato, se lo gettavano l'un l'altro sinché moriva, di percosse... o di altro... E chi lo riceveva vivo per l'ultima volta, e tra le sue mani moriva, diventava il capo della setta... E il corpo del bambino veniva lacerato, e mescolato alla farina, per farne ostie blasfeme!”
“Ubertino,” disse fermamente Guglielmo, “queste cose sono state dette, molti secoli fa, dai vescovi armeni, della setta dei pauliciani. E dei bogomili.”
“E che conta? Il demonio è ottuso, segue un ritmo nelle sue insidie e nelle sue seduzioni, ripete i propri riti a distanza di millenni, egli è sempre lo stesso, proprio per questo lo si riconosce come il nemico! Ti giuro, accendevano delle candele, la notte di Pasqua, e portavano nella cantina delle fanciulle. Poi spegnevano le candele e si gettavano su di esse, anche se erano legate loro da vincoli di sangue... E se da questo amplesso nasceva un bambino, ricominciava il rito infernale, tutti intorno a un vaso pieno di vino, che chiamavano il barilotto, a inebriarsi, e tagliavano a pezzi il bambino, e ne versavano il sangue in una coppa, e buttavano bambini ancora vivi sul fuoco, e mescevano le ceneri del bambino, il suo sangue, e ne bevevano!”
“Ma questo lo scriveva Michele Psello nel libro sulle operazioni dei demoni, trecento anni fa! Chi ti ha raccontato queste cose?”
“Essi, Bentivenga e gli altri, e sotto tortura!”
“C'è una sola cosa che eccita gli animali più del piacere, ed è il dolore. Sotto tortura vivi come sotto l'impero di erbe che danno visioni. Tutto quello che hai sentito raccontare, tutto quello che hai letto, ti torna alla mente, come se tu fossi rapito, non verso il cielo, ma verso l'inferno. Sotto tortura dici non solo quello che vuole l'inquisitore, ma anche quello che immagini possa dargli piacere, perché si stabilisce un legame (questo sì, veramente diabolico) tra te e lui... Queste cose le so, Ubertino, ho fatto parte anch'io di quei gruppi di uomini che credono di produrre la verità con il ferro incandescente. Ebbene, sappi, l'incandescenza della verità è di altra fiamma. Sotto tortura Bentivenga può avere detto le menzogne più assurde, perché non parlava più lui, ma la sua lussuria, i demoni dell'anima sua.”
“Lussuria?”
“Sì, c'è una lussuria del dolore, come c'è una lussuria dell'adorazione e persino una lussuria dell'umiltà. Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d'adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? Ecco, ora lo sai, fu questo pensiero che mi colse nel corso delle mie inquisizioni. E fu per questo che rinunciai a quella attività. Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi.”
Ubertino aveva ascoltato le ultime parole di Guglielmo come se non comprendesse quello che egli diceva. Dall'espressione del suo volto, sempre più ispirata ad affettuosa commiserazione, capii che egli riteneva Guglielmo preda di sentimenti molto colpevoli, che egli perdonava perché molto lo amava. Lo interruppe, e disse in tono assai amaro: “Non importa. Se sentivi così, hai fatto bene a fermarti. Bisogna combattere le tentazioni. Però mi mancò il tuo appoggio, e avremmo potuto sgominare quella mala banda. E invece sai che accadde, io stesso fui accusato di essere troppo debole con loro, e fui sospettato di eresia. Sei stato troppo debole anche tu, nel combattere il male. Il male, Guglielmo: non cesserà mai questa condanna, quest'ombra, questo fango che ci impedisce di toccare la sorgente?” Si appressò ancora più a Guglielmo, come se fosse timoroso che qualcuno lo udisse: “Anche qui, anche tra queste mura consacrate alla preghiera, lo sai?”
“Lo so, l'Abate mi ha parlato, mi ha anzi chiesto di aiutarlo a far luce.”
“E allora spia, scava, guarda con occhio di lince in due direzioni, la lussuria e la superbia...”
“La lussuria?”
“Sì, la lussuria. C'era qualcosa di... di femminile, e dunque di diabolico in quel giovane che è morto. Aveva occhi di fanciulla che cerchi commercio con un incubo. Ma ti ho detto anche la superbia, la superbia della mente, in questo monastero consacrato all'orgoglio della parola, alla illusione della sapienza...”
“Se sai qualcosa aiutami.”
“Non so nulla. Non c'è nulla che io sappia. Ma certe cose si sentono col cuore. Lascia parlare il tuo cuore, interroga i volti, non ascoltare le lingue... Ma suvvia, perché dobbiamo parlare di queste tristezze e intimorire questo nostro giovane amico?” Mi guardò coi suoi occhi celesti, sfiorando la mia guancia con le sue dita lunghe e bianche, e quasi mi venne l'istinto di ritrarmi; mi trattenni e feci bene, perché l'avrei offeso, e la sua intenzione era pura. “Dimmi piuttosto di te,” disse volgendosi di nuovo a Guglielmo. “Cosa hai fatto dopo di allora? Sono passati...”
“Diciotto anni. Sono tornato nelle mie terre. Ho studiato ancora a Oxford. Ho studiato la natura.”
“La natura è buona perché è figlia di Dio,” disse Ubertino.
“E Dio deve essere buono, se ha generato la natura,” sorrise Guglielmo. “Ho studiato, ho incontrato amici molto saggi. Poi ho conosciuto Marsilio, mi hanno attratto le sue idee sull'impero, sul popolo, su una nuova legge per i regni della terra, e così sono finito in quel gruppo dei nostri confratelli che stanno consigliando l'imperatore. Ma queste cose le sai, ti avevo scritto. Ho esultato quando a Bobbio mi hanno detto che eri qui. Ti credevamo perduto. Ma ora che sei con noi potrai esserci di grande aiuto tra qualche giorno, quando arriverà anche Michele. Sarà uno scontro duro.”
“Non avrò molto da dire più di quel che dissi cinque anni fa ad Avignone. Chi verrà con Michele?”
“Alcuni che furono al capitolo di Perugia, Arnaldo d'Aquitania, Ugo da Newcastle...”
“Chi?” domandò Ubertino.
“Ugo da Novocastro, scusami, uso la mia lingua anche quando parlo in buon latino. E poi Guglielmo Alnwick. E da parte dei francescani avignonesi potremo contare su Girolamo, lo sciocco di Caffa, e verranno forse Berengario Talloni e Bonagrazia da Bergamo.”
“Speriamo in Dio,” disse Ubertino, “questi ultimi non vorranno inimicarsi troppo il papa. E chi ci sarà a sostenere le posizioni della curia, intendo, tra i duri di cuore?”
“Dalle lettere che mi sono pervenute immagino ci saranno Lorenzo Decoalcone...”
“Un uomo maligno.”
“Jean d'Anneaux...”
“Questo è sottile in teologia, guardatene.”
“Ce ne guarderemo. E infine Jean de Baune.”
“Se la vedrà con Berengario Talloni.”
“Sì, credo proprio che ci divertiremo,” disse il mio maestro di ottimo umore. Ubertino lo guardò con un sorriso incerto.
“Non capisco mai quando voi inglesi parlate seriamente. Non c'è nulla di divertente in una questione così grave. Ne va della sopravvivenza dell'ordine, che è il tuo e che nel profondo del cuore è ancora il mio. Ma io scongiurerò Michele di non andare ad Avignone. Giovanni lo vuole, lo cerca, lo invita con troppa insistenza. Diffidate di quel vecchio francese. Oh Signore, in quali mani è caduta la tua chiesa!” Volse il capo verso l'altare. “Trasformata in meretrice, ammollita nel lusso, si avvoltola nella lussuria come una serpe in calore! Dalla purezza nuda della stalla di Bethlehem, legno come fu legno il lignum vitae della croce, ai baccanali d'oro e di pietra, guarda, anche qui, hai visto il portale, non ci si sottrae all'orgoglio delle immagini! Sono infine prossimi i giorni dell'Anticristo e io ho paura, Guglielmo!” Si guardò intorno, fissando lo sguardo sbarrato entro le navate oscure, come se l'Anticristo dovesse apparire da un momento all'altro, e io invero mi attendevo di scorgerlo. “I suoi luogotenenti sono già qui, mandati come Cristo mandò gli apostoli per il mondo! Stanno conculcando la Città di Dio, seducono con l'inganno, l'ipocrisia e la violenza. Sarà allora che Dio dovrà mandare i suoi servi, Elia ed Enoch, che egli ha conservato ancora in vita nel paradiso terrestre perché un giorno confondano l'Anticristo, e verranno a profetare vestiti di sacco, e predicheranno la penitenza con l'esempio e con la parola...”
“Sono già venuti, Ubertino,” disse Guglielmo, mostrando il suo saio di francescano.
“Ma non hanno ancora vinto, è il momento che l'Anticristo, pieno di furore, comanderà di uccidere Enoch ed Elia e i loro corpi perché ognuno possa vederli e tema di volerli imitare. Così come volevano uccidere me...”
In quel momento, atterrito, pensavo che Ubertino fosse in preda a una sorta di divina mania, e temetti per la sua ragione. Ora a distanza di tempo, sapendo quel che so, e cioè che qualche anno dopo fu misteriosamente ucciso in una città tedesca, e mai non si seppe da chi, sono più atterrito ancora, perché evidentemente quella sera Ubertino profetava.
“Lo sai, l'abate Gioacchino aveva detto la verità. Siamo giunti alla sesta era della storia umana, in cui appariranno due Anticristi, l'Anticristo mistico e l'Anticristo proprio, questo accade ora nella sesta epoca, dopo che è apparso Francesco a configurare nella sua stessa carne le cinque piaghe di Gesù Crocifisso. Bonifacio fu l'Anticristo mistico, e l'abdicazione di Celestino non fu valida, Bonifacio fu la bestia che viene dal mare le cui sette teste rappresentano le offese ai peccati capitali e le dieci corna le offese ai comandamenti, e i cardinali che lo attorniavano erano le locuste, il cui corpo è Appolyon! Ma il numero della bestia, se ne leggi il nome in lettere greche, è Benedicti!” Mi fissò per vedere se avevo capito e alzò un dito ammonendomi. “Benedetto XI fu l'Anticristo proprio, la bestia che ascende dalla terra! Dio ha permesso che tale mostro di vizio e di iniquità governasse la sua chiesa perché le virtù del suo successore sfolgorassero di gloria!”
“Ma padre santo,” obbiettai con un filo di voce, facendomi coraggio, “il suo successore è Giovanni!”
Ubertino si posò una mano sulla fronte come per cancellare un sogno molesto. Respirava a fatica, era stanco. “Già. I calcoli erano errati, stiamo ancora attendendo il papa angelico... Ma intanto sono apparsi Francesco e Domenico.” Alzò gli occhi al cielo e disse come pregando (ma fui sicuro che stava recitando una pagina del suo grande libro sull'albero della vita): “Quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore celico inflammatus totum incendere videbatur. Secundus vero verbo predicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit... Sì, se queste sono state le promesse, il papa angelico dovrà venire.”
“E così sia Ubertino,” disse Guglielmo. “Intanto io sono qui per impedire che venga cacciato l'imperatore umano. Del tuo papa angelico parlava anche fra Dolcino...”
“Non pronunciare più il nome di quella serpe!” urlò Ubertino, e per la prima volta lo vidi trasformarsi, da accorato che era, in adirato. “Egli ha insozzato la parola di Gioacchino di Calabria e ne ha fatto fomite di morte e sporcizia! Messaggero dell'Anticristo, se mai ve ne furono. Ma tu Guglielmo parli così perché in verità non credi all'avvento dell'Anticristo e i tuoi maestri di Oxford ti hanno insegnato a idolatrare la ragione inaridendo le capacità profetiche del tuo cuore!”
“Ti sbagli Ubertino,” rispose con molta serietà Guglielmo. “Tu sai che venero più di ogni altro tra i miei maestri Ruggiero Bacone...”
“Che vaneggiava di macchine volanti, “ motteggiò amaramente Ubertino.
“Che ha parlato chiaramente e limpidamente sull'Anticristo, ne ha avvertito i segni nella corruzione del mondo e nell'indebolimento della sapienza. Ma ha insegnato che vi è un solo modo per prepararci alla sua venuta: studiare i segreti della natura, usare del sapere per migliorare il genere umano. Puoi prepararti a combattere l'Anticristo studiando le virtù curative delle erbe, la natura delle pietre, e persino progettando le macchine volanti di cui sorridi.”
“L'Anticristo del tuo Bacone era un pretesto per coltivare l'orgoglio della ragione.”
“Santo pretesto.”
“Nulla che sia pretestuoso è santo. Guglielmo, sai che ti voglio bene. Sai che confido molto in te. Castiga la tua intelligenza, impara a piangere sulle piaghe del Signore, butta via i tuoi libri.”
“Tratterrò soltanto il tuo,” sorrise Guglielmo. Ubertino sorrise anch'egli e lo minacciò col dito: “Sciocco di un inglese. E non ridere troppo dei tuoi simili. Anzi, quelli che non puoi amare, temili. E guardati dall'abbazia. Questo luogo non mi piace.”
“Voglio appunto conoscerlo meglio,” disse Guglielmo congedandosi, “andiamo Adso.”
“Io ti dico che non è buono, e tu dici che vuoi conoscerlo. Ah!” disse Ubertino scuotendo la testa.
“A proposito,” disse ancora Guglielmo già a metà della navata, “chi è quel monaco che sembra un animale e parla la lingua di Babele?”
“Salvatore?” si voltò Ubertino che già si era inginocchiato. “Credo di averne fatto dono io a questa abbazia... Insieme al cellario. Quando lasciai il saio francescano tornai per qualche tempo nel mio vecchio convento a Casale, e lì trovai altri frati in angustie, perché la comunità li accusava di essere spirituali della mia setta... così si esprimevano. Mi adoperai in loro favore, ottenendo che potessero seguire il mio esempio. E due, Salvatore e Remigio, ne ho trovati proprio qui, quando vi arrivai l'anno scorso. Salvatore... Davvero, pare una bestia. Ma è servizievole.”
Guglielmo esitò un istante. “L'ho sentito dire penitenziagite.”
Ubertino tacque. Mosse una mano come per scacciare un pensiero molesto. “No, non credo. Sai come sono questi fratelli laici. Gente di campagna, che hanno udito forse qualche predicatore vagante, e non sanno cosa si dicono. A Salvatore avrei altro da rimproverare, è una bestia ghiotta e lussuriosa. Ma nulla, nulla contro l'ortodossia. No, il male dell'abbazia è un altro, cercalo in chi sa troppo, non in chi non sa nulla. Non costruire un castello di sospetti su una parola.”
“Non lo farei mai,” rispose Guglielmo. “Ho smesso di fare l'inquisitore proprio per non fare questo. Però mi piace ascoltare anche le parole, e poi ci penso su.”
“Tu pensi troppo. Ragazzo,” disse rivolgendosi a me, “non trarre troppi cattivi esempi dal tuo maestro. L'unica cosa a cui si deve pensare, e me ne rendo conto alla fine della mia vita, è la morte. Mors est quies viatoris - finis est omnis laboris. Lasciatemi pregare.”

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