lunedì 18 agosto 2008

Primo giorno - Verso nona

Dove Guglielmo ha un dialogo dottissimo con
Severino erborista





Ripercorremmo la navata centrale e uscimmo dal portale da cui eravamo entrati. Avevo ancora le parole di Ubertino, tutte, che mi ronzavano nella testa.
“E' un uomo... strano,” ardii dire a Guglielmo.
“E', o è stato, per molti aspetti, un grande uomo. Ma proprio per questo è strano. Sono solo gli uomini piccoli che sembrano normali. Ubertino avrebbe potuto diventare uno degli eretici che ha contribuito a fare bruciare, o un cardinale di santa romana chiesa. E' andato vicinissimo a entrambe le perversioni. Quando parlo con Ubertino ho l'impressione che l'inferno sia il paradiso guardato dall'altra parte.”
Non capii cosa volesse dire: “Da che parte?” domandai.
“Eh già,” ammise Guglielmo, “si tratta di sapere se ci sono delle parti e se c'è un tutto. Ma non darmi ascolto. E non guardare più quel portale,” disse colpendomi lievemente sulla nuca mentre mi rigiravo attirato dalle sculture che avevo visto all'entrata. “Per quest'oggi ti hanno spaventato abbastanza. Tutti.”
Mentre mi rivoltavo verso l'uscita, vidi davanti a me un altro monaco. Poteva avere la stessa età di Guglielmo. Ci sorrise e ci salutò urbanamente. Disse che era Severino da Sant'Emmerano, ed era il padre erborista, che aveva cura dei balnea, dell'ospedale, e degli orti, e che si metteva al nostro servizio se avessimo voluto orientarci meglio nel recinto dell'abbazia.
Guglielmo lo ringraziò e disse che aveva già notato, entrando, il bellissimo orto, che gli pareva contenere non solo erbe commestibili, ma anche piante medicinali, per quanto si poteva vedere attraverso la neve.
“D'estate o di primavera, con la varietà delle sue erbe, e ciascuna adornata dei suoi fiori, questo orto canta meglio le lodi del Creatore,” disse Severino a mo' di scusa. “Ma anche in questa stagione l'occhio dell'erborista vede attraverso i rami secchi le piante che verranno e può dirti che quest'orto è più ricco di quanto mai lo fu un erbario, e più variopinto, per quanto bellissime siano le miniature di quello. E poi anche in inverno crescono le erbe buone, e altre ne tengo raccolte e pronte nei vasi che ho in laboratorio. Così con le radici dell'acetosella si curano i catarri, e con decotto di radici di althea si fanno impacchi per le malattie della pelle, con la lappa si cicatrizzano gli eczemi, triturando e macinando il rizoma della bistorta si curano le diarree e alcuni mali delle donne, la lippia è un buon digestivo, la farfara va bene per la tosse, e abbiamo della buona genziana per digerire, e della glycyrrhiza, e del ginepro per farne un buon infuso, il sambuco da farne con la corteccia un decotto per il fegato, la saponaria da macerarne le radici in acqua fredda, per il catarro, e la valeriana di cui certo conoscete le virtù.”
“Avete erbe diverse e buone per climi diversi. Come mai?”
“Per un lato lo devo alla misericordia del Signore, che ha posto il nostro altopiano a cavallo di una catena che vede a meridione il mare, e ne riceve i venti caldi, e a settentrione la montagna più alta di cui riceve i balsami silvestri. E per un lato lo devo all'abito dell'arte, che ho indegnamente acquisito per volontà dei miei maestri. Certe piante crescono anche in clima avverso se ne curi il terreno circostante, e il nutrimento, e la crescita.”
“Ma avete anche piante buone solo per mangiare?” domandai.
“Mio giovane puledro affamato, non ci sono piante buone per il cibo che non siano anche per la cura, purché prese in giusta misura. Solo l'eccesso le rende causa di malattia. Prendi la zucca. E' di natura fredda e umida e mitiga la sete, ma a mangiarla guasta ti provoca diarrea e devi restringere le tue viscere con un impasto di salamoia e senape. E le cipolle? Calde e umide, poche potenziano il coito, naturalmente per coloro che non han pronunciato i nostri voti, troppe ti dan pesantezza di capo e van combattute con latte e aceto. Buona ragione,” aggiunse con malizia, “perché un giovane monaco ne mangi sempre con parsimonia. Mangia invece aglio. Caldo e secco, è buono contro i veleni. Ma non esagerare, fa espellere troppi umori dal cervello. I fagioli invece producono urina e ingrassano, due cose molto buone. Ma danno cattivi sogni. Molto meno però di certe altre erbe, perché ve ne sono anche che provocano cattive visioni.”
“Quali?” domandai.
“Eh, eh, il nostro novizio vuole sapere troppo. Queste sono cose che deve sapere solo l'erborista, se no qualsiasi sconsiderato potrebbe andare in giro a somministrar visioni, ovvero a mentire con le erbe.”
“Ma basta un poco d'urtica,” disse allora Guglielmo, “o la roybra, o l'olieribus, e si è protetti contro le visioni. Spero che voi abbiate di queste buone erbe.”
Severino guardò il maestro di sottecchi: “Ti interessi di erboristeria?”
“Molto poco,” disse modestamente Guglielmo, “una volta ebbi tra le mani il Theatrum Sanitatis di Ububchasym de Baldach...”
“Abul Asan al Muchtar ibn Botlan.”
“O Ellucasim Elimittar, come vuoi tu. Mi chiedo se se ne potrà trovare una copia qui.”
“E delle più belle, con molte immagini di preziosa fattura.”
“Sia lode al cielo. E il De virtutibus herbarum del Platearius?”
“Anche quello, e il De plantis e il De vegetalibus di Aristotele tradotto da Alfredo di Sareshel.”
“Ho sentito dire che non sia veramente di Aristotele,” osservò Guglielmo, “come non era di Aristotele, si scoprì, il De causis.”
“In ogni caso è un grande libro,” osservò Severino, e il mio maestro ne convenne con molto fervore senza chiedere se l'erborista parlasse del De vegetalibus o del De causis, due opere che non conoscevo ma che da quella conversazione conclusi essere grandissime entrambe.
“Sarò lieto,” concluse Severino, “di avere con te qualche onesta conversazione sulle erbe.”
“Io più di te,” disse Guglielmo, “ma non violeremo la regola del silenzio, che mi pare viga nel vostro ordine?”
“La regola,” disse Severino, “si è adattata nei secoli alle esigenze delle diverse comunità. La regola prevedeva la lectio divina ma non lo studio: eppure sai quanto il nostro ordine abbia sviluppato la ricerca sulle cose divine e sulle cose umane. Ancora, la regola prevede il dormitorio comune, ma talora è giusto, come da noi, che i monaci abbiano possibilità di riflessione anche durante la notte, e così ciascuno di essi ha la propria cella. La regola è molto severa riguardo al silenzio, e anche da noi non solo il monaco che fa opere manuali ma anche colui che scrive o che legge non deve conversare coi suoi fratelli. Ma l'abbazia è anzitutto una comunità di studiosi e spesso è utile che i monaci si scambino i tesori di dottrina che accumulano. Ogni conversazione che riguardi i nostri studi è ritenuta legittima e profittevole, purché non si svolga in refettorio o durante le ore degli uffici sacri.”
“Hai avuto occasione di parlare molto con Adelmo da Otranto?” chiese bruscamente Guglielmo.
Severino non parve sorpreso: “Vedo che l'Abate ti ha già parlato,” disse. “No. Con lui non mi intrattenevo sovente. Passava il tempo a miniare. L'ho udito talora discutere con altri monaci, Venanzio da Salvemec, o Jorge da Burgos, sulla natura del suo lavoro. E poi io non passo la giornata nello scriptorium, ma nel mio laboratorio,” e accennò all'edificio dell'ospedale.
“Capisco,” disse Guglielmo. “Dunque non sai se Adelmo avesse avuto visioni.”
“Visioni?”
“Come quelle che procurano le tue erbe, per esempio.”
Severino si irrigidì: “Ho detto che custodisco con molta cura le erbe pericolose.”
“Non dico questo,” si affrettò a precisare Guglielmo. “Parlavo di visioni in genere.”
“Non capisco,” insisté Severino.
“Pensavo che un monaco che si aggira di notte per l'Edificio, dove per ammissione dell'Abate possono accadere cose... tremende a chi vi entri in ore proibite, bene, dicevo, pensavo che potesse aver avuto visioni diaboliche che l'avessero spinto nel precipizio.”
“Ho detto che non frequento lo scriptorium, salvo quando mi serve qualche libro, ma di solito ho i miei erbari che conservo nell'ospedale. Ti ho detto, Adelmo era molto familiare di Jorge, di Venanzio e... naturalmente, di Berengario.”
Avvertii anch'io una lieve esitazione nella voce di Severino. Né sfuggì al mio maestro: “Berengario? E perché naturalmente?”
“Berengario da Arundel, l'aiuto bibliotecario. Erano coetanei, sono stati novizi insieme, era normale che avessero cose di cui parlare. Questo volevo dire.”
“Questo dunque volevi dire,” commentò Guglielmo. E mi stupii che non insistesse su quel punto. Infatti cambiò subito discorso. “Ma forse è ora che entriamo nell'Edificio. Ci fai da guida?”
“Con piacere,” disse Severino con un sollievo sin troppo evidente. Ci fece costeggiare l'orto e ci portò di fronte alla facciata occidentale dell'Edificio.
“Dalla parte dell'orto vi è il portale che dà adito alla cucina,” disse, “ma la cucina occupa solo la metà occidentale del primo piano, nella seconda metà vi è il refettorio. E dalla porta meridionale, a cui si arriva passando dietro il coro della chiesa, vi sono due altri portali che recano e alla cucina e al refettorio. Ma entriamo pure di qui, perché dalla cucina potremo poi passare dall'interno al refettorio.”
Come entrai nella vasta cucina mi avvidi che l'Edificio generava al suo interno, e per tutta la sua altezza, una corte ottagonale; come compresi dopo si trattava di una sorta di gran pozzo, privo di accessi, su cui si aprivano a ogni piano ampie finestre, come quelle che davano verso l'esterno. La cucina era un immenso androne pieno di fumo, dove già molti famigli si affrettavano a disporre i cibi per la cena. Su un grande tavolo due di essi preparavano un pasticcio di verdura, orzo, avena e segale, tagliuzzando rape, crescione, rapanelli e carote. Accanto, un altro dei cuochi aveva appena finito di cuocere alcuni pesci in una miscela di vino e acqua, e li stava ricoprendo con una salsa composta di salvia, prezzemolo, timo, aglio, pepe e sale.
In corrispondenza al torrione occidentale si apriva un enorme forno per il pane che già balenava di fiamme rossastre. Nel torrione meridionale, un immenso camino su cui bollivano dei pentoloni e giravano degli spiedi. Dalla porta che dava sull'aia dietro la chiesa entravano in quel momento i porcai portando le carni dei maiali scannati. Uscimmo anzi da quella porta e ci trovammo sull'aia, nella estremità orientale del pianoro, a ridosso delle mura, dove sorgevano molte costruzioni. Severino mi spiegò che la prima era l'insieme degli stabbi, poi sorgevano le stalle dei cavalli, poi quelle dei buoi, e i pollai, e il recinto coperto delle pecore. Davanti agli stabbi i porcai rimestavano in una gran giara il sangue dei porci appena sgozzati, affinché non si coagulasse. Se veniva rimestato bene e subito avrebbe poi resistito per i prossimi giorni, grazie al clima rigido, e infine se ne sarebbero fatti sanguinacci.
Rientrammo nell'Edificio e gettammo appena una occhiata al refettorio, che attraversammo per portarci verso il torrione orientale. Dei due torrioni, in cui si allargava il refettorio, il settentrionale ospitava un camino, l'altro una scala a forma di chiocciola che menava allo scriptorium, e cioè al secondo piano. Di lì i monaci si recavano ogni giorno al lavoro, oppure da due scale, meno agevoli ma ben riscaldate, che salivano a spirale dietro al camino e al forno della cucina.
Guglielmo chiese se avremmo trovato qualcuno nello scriptorium anche se era domenica. Severino sorrise e disse che il lavoro, per il monaco benedettino, è preghiera. La domenica gli uffici duravano più a lungo, ma i monaci addetti ai libri passavano ugualmente alcune ore lassù, di solito impiegate in fruttiferi scambi di osservazioni dotte, consigli, riflessioni sulle sacre scritture.

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