Dove Bencio fa uno strano racconto da cui si apprendono
cose poco edificanti sulla vita dell'abbazia
Quello che Bencio ci disse fu alquanto confuso. Sembrava veramente che egli ci avesse attirato laggiù solo per allontanarci dallo scriptorium, ma pareva anche che, incapace di inventare un pretesto attendibile, egli ci dicesse anche frammenti di una verità più vasta che egli conosceva.
Egli ci disse che al mattino era stato reticente, ma che ora, dopo matura riflessione, riteneva che Guglielmo dovesse sapere tutta la verità. Durante la famosa conversazione sul riso, Berengario aveva accennato al “finis Africae”. Cos'era? La biblioteca era piena di segreti, e specialmente di libri che non erano mai stati dati in lettura ai monaci. Bencio era stato colpito dalle parole di Guglielmo sull'esame razionale delle proposizioni. Egli riteneva che un monaco studioso avesse il diritto di conoscere tutto quello che la biblioteca custodiva, disse parole di fuoco contro il concilio di Soissons che aveva condannato Abelardo, e mentre parlava ci rendemmo conto che questo monaco ancora giovane, che si dilettava di retorica, era agitato da fremiti di indipendenza e faticava ad accettare i vincoli che la disciplina dell'abbazia poneva alla curiosità del suo intelletto. Io ho sempre appreso a diffidare di tali curiosità, ma so bene che al mio maestro questo atteggiamento non dispiaceva, e mi avvidi che simpatizzava con Bencio e gli prestava fede. In breve, Bencio ci disse che non sapeva di che segreti Adelmo, Venanzio e Berengario avessero parlato, ma che non gli sarebbe dispiaciuto che da quella triste storia ne addivenisse un po' di luce sul modo in cui la biblioteca era amministrata, e che non disperava che il mio maestro, comunque avesse dipanato la matassa dell'inchiesta, ne traesse elementi per stimolare l'Abate ad allentare la disciplina intellettuale che pesava sui monaci - venuti da tanto lontano, come lui, aggiunse, proprio per nutrire la loro mente con le meraviglie celate nell'ampio ventre della biblioteca.
Io credo che Bencio fosse sincero nell'attendersi dall'inchiesta quello che diceva. Probabilmente però voleva al tempo stesso, come Guglielmo aveva previsto, riservarsi di frugare nel tavolo di Venanzio per primo, divorato com'era dalla curiosità, e per tenercene lontani era disposto a darci in cambio altre informazioni. Ed ecco quali furono.
Berengario era consumato, ormai molti tra i monaci lo sapevano, da un'insana passione per Adelmo, la stessa passione i cui nefasti la collera divina aveva colpito a Sodoma e Gomorra. Così Bencio si espresse, forse per riguardo alla mia giovane età. Ma chi ha vissuto la propria adolescenza in un monastero sa che, ancorché si sia mantenuto casto, di tali passioni ha ben sentito parlare, e talora ha dovuto guardarsi dalle insidie di chi ne era schiavo. Monacello com'ero non avevo già ricevuto io stesso, a Melk, da un monaco anziano, cartigli con versi che di solito un laico dedica a una donna? I voti monacali ci tengono lontani da quella sentina di vizi che è il corpo della femmina, ma spesso ci conducono vicinissimi ad altri errori. Posso infine nascondermi che la mia stessa vecchiaia è ancora oggi agitata dal demone meridiano quando mi accade di attardare il mio sguardo, in coro, sul volto imberbe di un novizio, puro e fresco come fanciulla?
Dico queste cose non per mettere in dubbio la scelta che ho fatto di dedicarmi alla vita monastica, ma per giustificare l'errore di molti a cui questo santo fardello risulta pesante. Forse per giustificare il delitto orribile di Berengario. Ma pare, secondo Bencio, che questo monaco coltivasse il suo vizio in modo ancora più ignobile, e cioè usando le armi del ricatto per ottenere da altri quanto la virtù e il decoro avrebbero dovuto sconsigliar loro di donare.
Dunque da tempo i monaci ironizzavano sugli sguardi teneri che Berengario lanciava ad Adelmo, che pare fosse di grande avvenenza. Mentre Adelmo, totalmente innamorato del suo lavoro, dal quale soltanto pareva trarre diletto, poco si prendeva cura della passione di Berengario. Ma forse, chi sa, egli ignorava che l'animo suo, nel profondo, lo inclinava alla stessa ignominia. Fatto sta che Bencio disse di aver sorpreso un dialogo tra Adelmo e Berengario, in cui Berengario, alludendo a un segreto che Adelmo gli chiedeva di svelargli, gli proponeva il turpe mercato che anche il lettore più innocente può immaginare. E pare che Bencio udisse dalle labbra di Adelmo parole di consenso, quasi dette con sollievo. Come se, ardiva Bencio, Adelmo altro in fondo non desiderasse, e gli fosse bastato trovare una ragione diversa dal desiderio carnale per acconsentire. Segno, argomentava Bencio, che il segreto di Berengario doveva riguardare arcani della sapienza, così che Adelmo potesse nutrire l'illusione di piegarsi a un peccato della carne per accontentare una voglia dell'intelletto. E, aggiunse Bencio con un sorriso, quante volte lui stesso non era agitato da voglie dell'intelletto così violente che per accontentarle avrebbe acconsentito ad assecondare voglie carnali non sue, anche contro la voglia carnale sua stessa.
“Non ci sono momenti,” chiese a Guglielmo, “in cui voi fareste anche cose riprovevoli per avere tra le mani un libro che cercate da anni?”
“Il saggio e virtuosissimo Silvestro II, secoli fa, diede in dono una sfera armillare preziosissima per un manoscritto, credo, di Stazio o Lucano,” disse Guglielmo. Aggiunse poi, prudentemente: “Ma si trattava di una sfera armillare, non della propria virtù.”
Bencio ammise che il suo entusiasmo lo aveva trascinato oltre, e riprese il racconto. La notte prima che Adelmo morisse, egli aveva seguito i due, mosso dalla curiosità. E li aveva visti, dopo compieta, avviarsi insieme al dormitorio. Aveva atteso a lungo tenendo socchiusa la porta della sua cella, non lontana dalla loro, e aveva visto chiaramente Adelmo scivolare, quando il silenzio era calato sul sonno dei monaci, nella cella di Berengario. Aveva ancora vegliato, senza poter prendere sonno, sino a che aveva udito la porta di Berengario che si apriva, e Adelmo che ne fuggiva quasi di corsa, con l'amico che cercava di trattenerlo. Berengario lo aveva seguito mentre Adelmo scendeva al piano inferiore. Bencio li aveva seguiti cautamente e all'imbocco del corridoio inferiore aveva visto Berengario, quasi tremante, che schiacciato in un angolo fissava la porta della cella di Jorge. Bencio aveva intuito che Adelmo si era gettato ai piedi del vecchio confratello per confessargli il suo peccato. E Berengario tremava, sapendo che il suo segreto veniva svelato, sia pure sotto il sigillo del sacramento.
Poi Adelmo era uscito, pallidissimo in viso, aveva allontanato da sé Berengario che cercava di parlargli, e si era precipitato fuori dal dormitorio, girando intorno all'abside della chiesa ed entrando in coro dal portale settentrionale (che di notte rimane sempre aperto). Probabilmente voleva pregare. Berengario lo aveva seguito, ma senza entrare in chiesa, e si aggirava per le tombe del cimitero torcendosi le mani.
Bencio non sapeva che fare quando si era accorto che una quarta persona si muoveva nei pressi. Anch'essa aveva seguito i due e certo non si era avveduta della presenza di Bencio, che si teneva ritto contro il tronco di una quercia piantata ai limiti del cimitero. Era Venanzio. Alla sua vista Berengario si era acquattato tra le tombe e Venanzio era entrato anch'esso in coro. A questo punto Bencio, temendo di essere scoperto, aveva fatto ritorno al dormitorio. Il mattino dopo il cadavere di Adelmo era stato trovato ai piedi della scarpata. E altro, Bencio, non sapeva.
Si appressava ormai l'ora del desinare. Bencio ci lasciò e il mio maestro non gli chiese altro. Noi rimanemmo per un poco dietro i balnea, poi passeggiammo per qualche minuto nell'orto, meditando su quelle singolari rivelazioni.
“Frangula,” disse a un tratto Guglielmo chinandosi a osservare una pianta, che in quel giorno di inverno riconobbe dall'arbusto. “Buono l'infuso di corteccia per le emorroidi. E quello è arctium lappa, un buon cataplasma di radici fresche cicatrizza gli eczemi della pelle.”
“Siete più bravo di Severino,” gli dissi, “ma ora fatemi sentire cosa pensate di ciò che abbiamo udito!”
“Caro Adso, dovresti imparare a ragionare con la tua testa. Bencio ci ha detto probabilmente la verità. Il suo racconto coincide con quello, peraltro così frammisto ad allucinazioni, di Berengario, questa mattina presto. Prova a ricostruire. Berengario e Adelmo fanno insieme una gran brutta cosa, lo avevamo già intuito. E Berengario deve aver svelato ad Adelmo quel segreto che rimane ahimè un segreto. Adelmo, dopo aver commesso il suo delitto contro la castità e le regole della natura, pensa solo a confidarsi con qualcuno che possa assolverlo, e corre da Jorge. Il quale ha carattere molto austero, ne abbiamo avuto le prove, e certo assale Adelmo con angoscianti reprimende. Forse non gli dà l'assoluzione, forse gli impone un'impossibile penitenza, non lo sappiamo, né Jorge ce lo dirà mai. Fatto sta che Adelmo corre in chiesa a prosternarsi davanti all'altare, ma non placa il suo rimorso. A questo punto viene avvicinato da Venanzio. Non sappiamo cosa si dicano. Forse Adelmo confida a Venanzio il segreto avuto in dono (o in pagamento) da Berengario, e che ormai non gli importa più nulla, dappoiché egli ha ormai un suo segreto ben più terribile e bruciante. Cosa accade a Venanzio? Forse, preso dalla stessa ardente curiosità che muoveva oggi anche il nostro Bencio, pago di ciò che ha saputo, lascia Adelmo ai suoi rimorsi. Adelmo si vede abbandonato, progetta di uccidersi, esce disperato nel cimitero e ivi incontra Berengario. Gli dice parole tremende, gli rinfaccia la sua responsabilità, lo chiama suo maestro di turpitudine. Credo proprio che il racconto di Berengario, spogliato di ogni allucinazione, fosse esatto. Adelmo gli ripete le stesse parole di disperazione che deve aver udito da Jorge. Ed ecco che Berengario se ne va sconvolto da una parte, e Adelmo va a uccidersi dall'altra. Poi viene il resto, di cui siamo stati quasi testimoni. Tutti credono che Adelmo sia stato ucciso, Venanzio ne trae l'impressione che il segreto della biblioteca sia ancor più importante di quanto non credesse, e continua la ricerca per conto proprio. Sino a che qualcuno non lo ferma, prima o dopo che egli abbia scoperto ciò che voleva.”
“Chi lo uccide? Berengario?”
“Può essere. O Malachia, che deve custodire l'Edificio. O un altro. Berengario è sospettabile proprio perché è spaventato, e sapeva che ormai Venanzio possedeva il suo segreto. Malachia è sospettabile: custode dell'integrità della biblioteca, scopre che qualcuno l'ha violata, e uccide. Jorge sa tutto di tutti, possiede il segreto di Adelmo, non vuole che io scopra cosa Venanzio potrebbe aver trovato... Molti fatti consiglierebbero di sospettarlo. Ma dimmi tu come un uomo cieco può ucciderne un altro nel pieno delle forze, e come un vecchio, benché robusto, abbia potuto trasportare il cadavere nella giara. Ma infine, perché l'assassino non potrebbe essere lo stesso Bencio? Potrebbe averci mentito, essere mosso da fini inconfessabili. E perché limitare i sospetti ai soli che parteciparono alla conversazione sul riso? Forse il delitto ha avuto altri moventi, che non hanno nulla a che fare con la biblioteca. In ogni caso occorrono due cose: sapere come si entra in biblioteca di notte, e avere un lume. Per il lume pensaci tu. Gira in cucina all'ora di pranzo, prendine uno...”
“Un furto?”
“Un prestito, alla maggior gloria del Signore.”
“Se è così, contate su di me.”
“Bravo. Quanto a entrare nell'Edificio, abbiamo visto da dove è apparso Malachia ieri notte. Oggi farò una visita alla chiesa e a quella cappella in particolare. Tra un'ora andremo a mensa. Dopo abbiamo una riunione con l'Abate. Vi sarai ammesso, perché ho chiesto di avere un segretario che prenda nota di quanto diremo.”
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