sabato 23 agosto 2008

Primo giorno - Compieta


Dove Guglielmo e Adso godono della lieta ospitalità dell'Abate
e della corrucciata conversazione di Jorge





Il refettorio era illuminato da grandi torce. I monaci sedevano lungo una fila di tavole, dominata dal tavolo dell'Abate, posto perpendicolarmente a essi su una vasta pedana. Dalla parte opposta un pulpito, su cui aveva già preso posto il monaco che avrebbe fatto la lettura durante la cena. L'Abate ci attendeva presso una fontanella con un panno bianco per asciugarci le mani dopo il lavabo, giusta i consigli antichissimi di san Pacomio.
L'Abate invitò Guglielmo alla sua tavola e disse che per quella sera, dato che ero anch'io ospite fresco, avrei goduto dello stesso privilegio, anche se ero un novizio benedettino. I giorni seguenti, mi disse paternamente, avrei potuto sedermi a tavola coi monaci, o se il mio maestro mi avesse affidato qualche incarico, passare prima o dopo i pasti in cucina, dove i cuochi si sarebbero presi cura di me.
I monaci stavano ora in piedi ai tavoli, immobili col cappuccio abbassato sul viso e le mani sotto lo scapolare. L'Abate si appressò alla sua tavola e pronunciò il Benedicite. Il cantore dal pulpito intonò Edent pauperes. L'Abate diede la sua benedizione e ciascuno si sedette.
La regola del nostro fondatore prevede un desinare assai parco, ma lascia all'Abate decidere di quanto cibo abbiano effettivamente bisogno i monaci. D'altra parte ormai nelle nostre abbazie si indulge maggiormente ai piaceri della tavola. Non parlo di quelle che, purtroppo, si sono trasformate in covi di ghiottoni; ma anche quelle ispirate a criteri di penitenza e di virtù forniscono ai monaci, intenti quasi sempre a gravosi lavori dell'intelletto, un nutrimento non molle ma robusto. D'altro canto la mensa dell'Abate è sempre privilegiata, anche perché non di rado vi seggono degli ospiti di riguardo, e le abbazie sono orgogliose dei prodotti della loro terra e delle loro stalle, e della perizia dei loro cucinieri.
Il pasto dei monaci si svolse in silenzio, come di costume, gli uni comunicando agli altri con il nostro consueto alfabeto delle dita. I novizi e i monaci più giovani venivano serviti per primi, subito dopo che i piatti destinati a tutti erano passati dalla mensa dell'Abate.
Alla tavola dell'Abate sedevano con noi Malachia, il cellario e i due monaci più anziani, Jorge da Burgos, il vegliardo cieco che avevo già conosciuto nello scriptorium e il vecchissimo Alinardo da Grottaferrata: quasi centenario, claudicante e d'aspetto fragile, e - mi parve - assente di spirito. Ci disse di lui l'Abate che, novizio già in quella abbazia, sempre vi aveva vissuto e ne ricordava almeno ottant'anni di vicende. L'Abate ci disse queste cose sottovoce all'inizio, perché in seguito ci si attenne all'uso del nostro ordine e si seguì in silenzio la lettura. Ma, come dissi, alla tavola dell'Abate ci si prendevano alcune licenze, e ci avvenne di lodare i piatti che ci furono offerti, mentre l'Abate celebrava le qualità del suo olio, o del suo vino. Anzi una volta, mescendoci da bere, ci ricordò quei brani della regola in cui il santo fondatore aveva osservato che certo il vino non conviene ai monaci, ma poiché non si possono persuadere i monaci dei tempi nostri a non bere, che almeno non bevano sino alla sazietà, perché il vino spinge all'apostasia anche i saggi, come ricorda l'Ecclesiaste. Benedetto diceva “ai tempi nostri” e si riferiva ai suoi, ormai lontanissimi: figuriamoci ai tempi in cui cenavamo all'abbazia, dopo tanto decadimento di costumi (e non parlo dei tempi miei, in cui ora scrivo, se non che qui a Melk si indulge maggiormente alla birra!): insomma, si bevette senza esagerare ma non senza gusto.
Mangiammo carni allo spiedo, dei maiali appena uccisi, e mi avvidi che per altri cibi non si usava grasso di animali né olio di ravizzone, ma del buon olio d'oliva, che veniva da terreni che l'abbazia possedeva a piedi del monte verso il mare. L'Abate ci fece gustare (riservato alla sua mensa) quel pollo che avevo visto preparare in cucina. Notai che, cosa assai rara, egli disponeva anche di una forchetta di metallo, che nella forma mi ricordava le lenti del mio maestro: uomo di nobile estrazione il nostro ospite non voleva lordarsi le mani col cibo, e ci offrì anzi il suo strumento almeno per prendete le carni dal piatto grande e porle nelle nostre ciotole. Io rifiutai, ma vidi che Guglielmo accettò di buon grado e si servì con disinvoltura di quell'arnese da signori, forse per non provare all'Abate che i francescani erano persone di scarsa educazione e di estrazione umilissima.
Entusiasta com'ero per tutti quei buoni cibi (dopo alcuni giorni di viaggio in cui ci eravamo nutriti come potevamo), mi ero distratto dal corso della lettura che intanto devotamente proseguiva. Vi fui richiamato da un vigoroso grugnito d'assenso di Jorge, e mi avvidi che si era al punto in cui veniva sempre letto un capitolo della Regola. Mi resi conto del perché Jorge fosse tanto soddisfatto, dopo averlo ascoltato nel pomeriggio. Diceva infatti il lettore: “Imitiamo l'esempio del profeta che dice: ho deciso, veglierò sul mio cammino per non peccare con la mia lingua, ho posto un bavaglio alla mia bocca, sono ammutolito umiliandomi, mi sono astenuto dal parlare anche di cose oneste. E se in questo passo il profeta ci insegna che talvolta per amore del silenzio ci si dovrebbe astenere persino dai discorsi leciti, quanto di più dobbiamo astenerci dai discorsi illeciti per evitare la pena di questo peccato!” E poi proseguiva: “Ma le volgarità, le scempiaggini e le buffonerie noi le condanniamo alla reclusione perpetua, in ogni luogo, e non permettiamo che il discepolo apra la bocca per fare discorsi di tal fatta.”
“E questo valga per i marginalia di cui si diceva oggi,” non si trattenne dal commentare Jorge a bassa voce. “Giovanni Boccadoro ha detto che Cristo non ha mai riso.”
“Nulla nella sua natura umana lo vietava,” osservò Guglielmo, “perché il riso, come insegnano i teologi, è proprio dell'uomo.”
“Forte potuit sed non legitur eo usus fuisse,” disse recisamente Jorge, citando Pietro Cantore.
“Manduca, jam coctum est,” sussurrò Guglielmo.
“Cosa?” chiese Jorge, che credeva che egli alludesse a qualche cibo che gli veniva porto.
“Sono le parole che secondo Ambrogio furono pronunziate da san Lorenzo sulla graticola, quando invitò i carnefici a girarlo dall'altra parte, come ricorda anche Prudenzio nel Peristephanon,” disse Guglielmo con l'aria di un santo. “San Lorenzo sapeva dunque ridere e dir cose ridicole, sia pure per umiliare i propri nemici.”
“Il che dimostra che il riso è cosa assai vicina alla morte e alla corruzione del corpo,” ribatté in un ringhio Jorge, e devo ammettere che si comportò da buon loico.
A quel punto l'Abate ci invitò bonariamente al silenzio. La cena peraltro stava terminando. L'Abate si alzò e presentò Guglielmo ai monaci. Ne lodò la saggezza, ne palesò la fama, e avvertì che era stato pregato di investigare sulla morte di Adelmo, invitando i monaci a rispondere alle sue domande e ad avvertire i loro sottoposti, per tutta l'abbazia, a fare altrettanto. E a facilitargli le ricerche, purché, aggiunse, le sue richieste non contravvenissero alle regole del monastero. Nel qual caso si sarebbe dovuto ricorrere alla sua autorizzazione.
Finita la cena i monaci si disposero ad avviarsi al coro per l'ufficio di compieta. Si calarono di nuovo il cappuccio sul viso e si allinearono davanti alla porta, in stazione. Poi si mossero in lunga fila, attraversando il cimitero ed entrando nel coro dal portale settentrionale.
Ci avviammo con l'Abate.”A quest'ora si chiudono le porte dell'Edificio?” domandò Guglielmo.
“Appena i servi avranno pulito il refettorio e le cucine, il bibliotecario stesso chiuderà tutte le porte, sprangandole dall'interno.”
“Dall'interno? E lui da dove esce?”
L'Abate fissò Guglielmo per un attimo, serio in volto: “Certo non dorme in cucina,” disse bruscamente. E affrettò il passo.
“Bene bene,” mi sussurrò Guglielmo, “dunque esiste un'altra entrata, ma noi non la dobbiamo conoscere.” Io sorrisi tutto fiero della sua deduzione, ed egli mi rimbrottò: “E non ridere. Hai visto che entro queste mura il riso non gode di buona reputazione.”
Entrammo nel coro. Una sola lampada ardeva, su un robusto tripode di bronzo, alto come due uomini. I monaci si posero negli stalli in silenzio, mentre il lettore leggeva un passaggio di una omelia di san Gregorio.
Poi l'Abate fece un segno e il cantore intonò Tu autem Domine miserere nobis. L'Abate rispose Adjutorium nostrum in nomine Domini e tutti fecero coro con Qui fecit coelum et terram. Quindi iniziò il canto dei salmi: Quando invoco rispondimi o Dio della mia giustizia; Ti ringrazierò Signore con tutto il mio cuore; Su benedite il Signore, servi tutti del Signore. Noi non ci eravamo posti negli stalli, e ci eravamo ritratti nella navata principale. Fu di lì che scorgemmo improvvisamente Malachia emergere dal buio di una cappella laterale.
“Tieni d'occhio quel punto,” mi disse Guglielmo. “Potrebbe esserci un passaggio che porta all'Edificio.”
“Sotto il cimitero?”
“E perché no? Anzi, ripensandoci, ci dovrà essere da qualche parte un ossario, è impossibile che da secoli seppelliscano tutti i monaci in quel lembo di terra.”
“Ma volete veramente entrare di notte in biblioteca?” domandai atterrito.
“Dove ci sono i monaci defunti e i serpenti e le luci misteriose, mio buon Adso? No, ragazzo. Ci pensavo oggi, e non per curiosità ma perché mi ponevo il problema di come fosse morto Adelmo. Ora, come ti ho detto, propendo per una spiegazione più logica, e tutto sommato vorrei rispettare le usanze di questo luogo.”
“Allora perché volete sapere?”
“Perché la scienza non consiste solo nel sapere quello che si deve o si può fare, ma anche nel sapere quello che si potrebbe fare e che magari non si deve fare. Ecco perché oggi dicevo al maestro vetraio che il sapiente deve in qualche modo celare i segreti che scopre, perché altri non ne facciano cattivo uso, ma bisogna scoprirli, e questa biblioteca mi pare piuttosto un luogo dove i segreti rimangono coperti.”
Con queste parole si avviò fuori della chiesa, perché l'ufficio era terminato. Eravamo entrambi molto stanchi e andammo nella nostra cella. Io mi rannicchiai in quello che Guglielmo chiamò scherzosamente il mio “loculo” e mi addormentai subito.

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