sabato 30 agosto 2008

Secondo giorno - Notte

Dove si penetra finalmente nel labirinto, si hanno strane visioni
e, come accade nei labirinti, ci si perde





Rimontammo allo scriptorium, questa volta per la scala orientale, che saliva anche al piano proibito, il lume alto davanti a noi. Io pensavo alle parole di Alinardo sul labirinto e mi attendevo cose spaventevoli.
Fui sorpreso, come emergemmo nel luogo in cui non avremmo dovuto entrare, di trovarmi in una sala a sette lati, non molto ampia, priva di finestre, in cui regnava, come del resto in tutto il piano, un forte odore di stantio o di muffa. Nulla di terrificante.
La sala, dissi, aveva sette pareti, ma solo su quattro di esse si apriva, tra due colonnine incassate nel muro, un varco, un passaggio abbastanza ampio sormontato da un arco a tutto sesto. Lungo le pareti chiuse si addossavano enormi armadi, carichi di libri disposti con regolarità. Gli armadi portavano un cartiglio numerato e così pure ogni loro singolo ripiano: chiaramente gli stessi numeri che avevamo visto nel catalogo. In mezzo alla stanza un tavolo, anch'esso ripieno di libri. Su tutti i volumi un velo abbastanza leggero di polvere, segno che i libri venivano puliti con una certa frequenza. E anche per terra non vi era lordura di sorta. Sopra all'arco di una delle porte, un grande cartiglio, dipinto sul muro che recava le parole: Apocalypsis Iesu Christi. Non pareva sbiadito, anche se i caratteri erano antichi. Ci avvedemmo dopo, anche nelle altre stanze, che questi cartigli erano in verità incisi nella pietra, e abbastanza profondamente, e poi le cavità erano state riempite con della tinta, come si usa per affrescare le chiese.
Passammo per uno dei varchi. Ci trovammo in un'altra stanza, dove si apriva una finestra, che in luogo dei vetri portava lastre di alabastro, con due pareti piene e un varco, dello stesso tipo di quello da cui eravamo appena passati, che dava su un'altra stanza, la quale aveva due pareti piene anch'esse, una con finestra, e un'altra porta che si apriva davanti a noi. Nelle due stanze due cartigli simili nella forma al primo che avevamo visto, ma con altre parole. Il cartiglio della prima diceva: Super thronos viginti quatuor, e quello della seconda: Nomen illi mors. Per il resto, anche se le due stanze erano più piccole di quella da cui eravamo entrati in biblioteca (infatti quella era eptagonale e queste due rettangolari) l'arredo era lo stesso: armadi con libri e tavolo centrale.
Accedemmo alla terza stanza. Essa era vuota di libri e senza cartiglio. Sotto alla finestra un altare di pietra. Vi erano tre porte, una da cui eravamo entrati, l'altra che dava sulla stanza eptagonale già visitata, una terza che ci immise in una nuova stanza, non dissimile dalle altre, salvo che per il cartiglio che diceva: Obscuratus est sol et aer. Di qui si passava a una nuova stanza, il cui cartiglio diceva Facta est grando et ignis; era priva di altre porte, ovvero, arrivati a quella stanza non si poteva procedere e occorreva tornare indietro.
“Ragioniamo,” disse Guglielmo. “Cinque stanze quadrangolari o vagamente trapezoidali, con una finestra ciascuna, che girano intorno a una stanza eptagonale senza finestre a cui sale la scala. Mi pare elementare. Siamo nel torrione orientale, ogni torrione dall'esterno presenta cinque finestre e cinque lati. Il conto torna. La stanza vuota è proprio quella che guarda a oriente, nella stessa direzione del coro della chiesa, la luce del sole all'alba illumina l'altare, il che mi sembra giusto e pio. L'unica idea astuta mi pare quella delle lastre di alabastro. Di giorno filtrano una bella luce, di notte non lasciano trasparire neppure i raggi lunari. Non è poi un gran labirinto. Ora vediamo dove portano le altre due porte della stanza eptagonale. Credo che ci orienteremo facilmente.”
Il mio maestro si sbagliava e i costruttori della biblioteca erano stati più abili di quanto credessimo. Non so bene spiegare cosa avvenne, ma come abbandonammo il torrione, l'ordine delle stanze si fece più confuso. Alcune avevano due, altre tre porte. Tutte avevano una finestra, anche quelle che imboccavamo partendo da una stanza con finestra e pensando di andare verso l'interno dell'Edificio. Ciascuna aveva sempre lo stesso tipo di armadi e di tavoli, i volumi in bell'ordine ammassati sembravano tutti uguali e non ci aiutavano certo a riconoscere il luogo con un colpo d'occhio. Tentammo di orientarci coi cartigli. Una volta avevamo attraversato una stanza in cui era scritto In diebus illis e dopo alcuni giri ci parve di essere tornati laggiù. Ma ricordavamo che la porta davanti alla finestra immetteva in una stanza in cui era scritto Primogenitus mortuorum, mentre ora ne trovavamo un'altra che diceva di nuovo Apocalypsis Iesu Christi, e non era la sala eptagonale da cui eravamo partiti. Questo fatto ci convinse che talora i cartigli si ripetevano uguali in stanze diverse. Trovammo due stanze con Apocalypsis una appresso all'altra, e subito dopo una con Cecidit de coelo stella magna.
Da dove provenissero le frasi dei cartigli era evidente, si trattava di versetti dell'Apocalisse di Giovanni, ma non era affatto chiaro né perché fossero dipinti sui muri, né secondo quale logica fossero disposti. Ad accrescere la nostra confusione, rilevammo che alcuni cartigli, non molti, erano in color rosso anziché in nero.
A un certo punto ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza (quella era riconoscibile perché vi si apriva l'imbocco della scala), e riprendemmo a muoverci verso la nostra destra cercando di andare diritti di stanza in stanza. Passammo per tre stanze e poi ci trovammo di fronte a una parete chiusa. L'unico passaggio immetteva in una nuova stanza che aveva solo un'altra porta, uscendo dalla quale percorremmo altre quattro stanze e ci trovammo di nuovo di fronte a una parete. Tornammo alla stanza precedente che aveva due uscite, imboccammo quella non ancora tentata, passammo in una nuova stanza, e ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza.
“Come si chiamava l'ultima stanza da cui siamo tornati indietro?” chiese Guglielmo.
Feci uno sforzo di memoria: “Equus albus.”
“Bene, ritroviamola.” E fu facile. Di lì, se non si voleva tornare sui propri passi, non c'era che da passare alla stanza detta Gratia vobis et pax, e di lì a destra ci parve di trovare un nuovo passaggio che non ci riportasse indietro. In effetti trovammo ancora In diebus illis e Primogenitus mortuorum (erano le stesse stanze di poco prima?) ma infine giungemmo in una stanza che non ci pareva di aver ancora visitato: Tertia pars terrae combusta est. Ma a quel punto non sapevamo più dove eravamo rispetto al torrione orientale.
Protendendo il lume in avanti mi spinsi nelle stanze seguenti. Un gigante di proporzioni minacciose, dal corpo ondulato e fluttuante come quello di un fantasma, mi venne incontro.
“Un diavolo!” gridai e poco mancò mi cadesse il lume, mentre mi voltavo di colpo e mi rifugiavo tra le braccia di Guglielmo. Questi mi prese il lume dalle mani e scostandomi si fece avanti con una decisione che mi parve sublime. Vide anch'egli qualcosa, perché arretrò bruscamente. Poi si protese di nuovo in avanti e alzò la lucerna. Scoppiò a ridere.
“Veramente ingegnoso. Uno specchio!”
“Uno specchio?”
“Sì, mio prode guerriero. Ti sei lanciato con tanto coraggio su un nemico vero, poco fa nello scriptorium, e ora ti spaventi di fronte alla tua immagine. Uno specchio, che ti rimanda la tua immagine ingrandita e distorta.”
Mi prese per mano e mi condusse di fronte alla parete che fronteggiava l'ingresso della stanza. In una lastra di vetro ondulata, ora che il lume l'illuminava più da vicino, vidi le nostre due immagini, grottescamente deformate, che mutavano di forma e di altezza a seconda di quanto ci approssimassimo o ci allontanassimo.
“Devi leggerti qualche trattato di ottica,” disse Guglielmo divertito, “come certo l'hanno letto i fondatori della biblioteca. I migliori sono quelli degli arabi. Alhazen compose un trattato De aspectibus in cui, con precise dimostrazioni geometriche, ha parlato della forza degli specchi. Alcuni dei quali, a seconda di come è modulata la loro superficie, possono ingrandire le cose più minuscole (e che altro sono le mie lenti?), altri fanno apparire le immagini rovesciate, o oblique, o mostrano due oggetti in luogo di uno, e quattro in luogo di due. Altri ancora, come questo, fanno di un nano un gigante o di un gigante un nano.”
“Gesù Signore!” dissi. “Sono dunque queste le visioni che qualcuno dice di aver avuto in biblioteca?”
“Forse. Un'idea davvero ingegnosa.” Lesse il cartiglio sul muro, sopra lo specchio: Super thronos viginti quatuor. “L'abbiamo già trovato, ma era una sala senza specchio. E questa tra l'altro non ha finestre, eppure non è eptagonale. Dove siamo?” Si guardò intorno e si avvicinò a un armadio: “Adso, senza quei benedetti oculi ad legendum non riesco a capire cosa ci sia scritto su questi libri. Leggimi qualche titolo.”
Presi un libro a caso: “Maestro non è scritto!”
“Come? Vedo che è scritto, cosa leggi?”
“Non leggo. Non sono lettere dell'alfabeto e non è greco, lo riconoscerei. Sembrano vermi, serpentelli, caccole di mosche...”
“Ah, è arabo. Ce ne sono altri così?”
“Sì, alcuni. Ma eccone uno in latino, se Dio vuole. Al... Al Kuwarizmi, Tabulae.”
“Le tavole astronomiche di Al Kuwarizmi, tradotte da Adelardo da Bath! Opera rarissima! Va avanti.”
“Isa ibn Ali, De oculis, Alkindi, De radiis stellatis...”
“Guarda ora sul tavolo.”
Aprii un grande volume che giaceva sul tavolo, un De bestiis. Capitai su una pagina finemente miniata dove era rappresentato un bellissimo unicorno.
“Bella fattura,” commentò Guglielmo che riusciva a vedere bene le immagini. “E quello?”
Lessi: “Liber monstrorum de diversis generibus. Anche questo con belle immagini, ma mi paiono più antiche.”
Guglielmo piegò il volto sul testo: “Miniato da monaci irlandesi, almeno cinque secoli fa. Il libro dell'unicorno è invece molto più recente, mi pare fatto al modo dei francesi.” Ancora una volta ammirai la dottrina del mio maestro. Entrammo nella stanza successiva e percorremmo le quattro stanze seguenti, tutte con finestre, e tutte piene di volumi in lingue ignote, più alcuni testi di scienze occulte, e arrivammo a una parete che ci costrinse a tornare indietro perché le ultime cinque stanze penetravano le une nelle altre senza consentire altre uscite.
“Dall'inclinazione dei muri, dovremmo essere nel pentagono di un altro torrione,” disse Guglielmo, “ma non c'è la sala eptagonale centrale, forse ci sbagliamo.”
“Ma le finestre?” dissi. “Come possono esserci tante finestre? Impossibile che tutte le stanze diano sull'esterno.”
“Dimentichi il pozzo centrale, molte di quelle che abbiamo visto sono finestre che danno sull'ottagono del pozzo. Se fosse giorno, la differenza della luce ci direbbe quali sono le finestre esterne e quali le interne, e forse persino ci rivelerebbe la posizione della stanza rispetto al sole. Ma di sera non si avverte nessuna differenza. Torniamo indietro.”
Ritornammo nella stanza dello specchio e piegammo verso la terza porta dalla quale ci pareva di non essere ancora passati. Vedemmo davanti a noi una fuga di tre o quattro stanze, e verso l'ultima intravvedemmo un chiarore.
“C'è qualcuno!” esclamai con voce soffocata.
“Se c'è, si è già accorto del nostro lume,” disse Guglielmo coprendo tuttavia la fiamma con la mano. Ristemmo per un minuto o due. Il chiarore continuava a oscillare lievemente, ma senza che si facesse più forte o più debole.
“Forse è solo una lampada,” disse Guglielmo, “di quelle poste per convincere i monaci che la biblioteca è abitata dalle anime dei trapassati. Ma bisogna sapere. Tu stai qui coprendo il lume, io vado avanti con cautela.”
Ancora vergognoso per la povera figura fatta avanti allo specchio, volli redimermi agli occhi di Guglielmo: “No, vado io,” dissi, “voi restate qui. Procederò cauto, sono più piccolo e più leggero. Appena mi renderò conto che non c'è rischio vi chiamerò.”
E così feci. Procedetti per tre stanze camminando rasente i muri, leggero come un gatto (o come un novizio che scenda in cucina a rubar del cacio in dispensa, impresa in cui eccellevo a Melk). Arrivai alla soglia della stanza da cui proveniva il chiarore, assai debole, strisciando lungo il muro a ridosso della colonna che faceva da stipite destro e sbirciai nella stanza. Non c'era nessuno. Una specie di lampada era posata sul tavolo, accesa, e fumigava stentata. Non era una lucerna come la nostra, sembrava piuttosto un turibolo scoperto, non fiammeggiava, ma una cenere lieve covava bruciando qualcosa. Mi feci coraggio ed entrai. Sul tavolo accanto al turibolo giaceva aperto un libro dai colori vivaci. Mi appressai e scorsi sulla pagina quattro strisce di diverso colore, giallo, cinabro, turchese e terra bruciata. Vi campiva una bestia, orribile a vedersi, un gran dragone con dieci teste che con la coda si traeva dietro le stelle del cielo e le faceva precipitare sulla terra. E improvvisamente vidi che il dragone si moltiplicava, e le squame della sua pelle diventavano come una selva di scaglie rutilanti che si staccarono dal foglio e vennero a rotarmi intorno al capo. Mi arrovesciai indietro e vidi il soffitto della stanza che si inclinava e scendeva sopra di me, poi udii come un sibilo di mille serpenti, ma non spaventoso, quasi seducente, e apparve una donna circonfusa di luce che avvicinò il suo volto al mio alitandomi sul viso. L'allontanai con le mani tese e mi parve che le mie mani toccassero i libri dell'armadio di fronte, o che essi ingrandissero a dismisura. Non mi rendevo più conto di dove fossi, e dove fosse la terra e dove il cielo. Vidi al centro della stanza Berengario che mi fissava con un sorriso odioso, grondante di lussuria. Mi coprii il volto con le mani e le mie mani mi parvero gli arti di un rospo, viscide e palmate. Gridai, credo, sentii un sapore acidulo in bocca, poi sprofondai in un buio infinito, che sembrava si aprisse sempre di più sotto di me e non seppi più nulla.
Mi risvegliai dopo un periodo che io reputai di secoli, sentendo dei colpi che mi rintronavano nella testa. Ero sdraiato al suolo e Guglielmo mi stava dando schiaffi sulle guance. Non ero più in quella stanza e i miei occhi scorsero un cartiglio che diceva Requiescant a laboribus suis.
“Su su, Adso,” mi sussurrava Guglielmo. “Non è nulla...”
“Le cose...” dissi ancora vaneggiando. “Laggiù, la bestia...”
“Nessuna bestia. Ti ho trovato che deliravi ai piedi di un tavolo con sopra una bella apocalisse mozarabica, aperta sulla pagina della mulier amicta sole che fronteggia il dragone. Ma mi sono accorto dall'odore che tu avevi respirato qualcosa di cattivo e ti ho subito portato via. Anche a me duole il capo.”
“Ma cosa ho visto?”
“Non hai visto nulla. E' che laggiù bruciavano delle sostanze capaci di dar visioni, ho riconosciuto l'odore, è una cosa degli arabi, forse la stessa che il Veglio della Montagna dava ad aspirare ai suoi assassini prima di spingerli alle loro imprese. E così abbiamo spiegato il mistero delle visioni. Qualcuno pone erbe magiche durante la notte per convincere i visitatori inopportuni che la biblioteca è protetta da presenze diaboliche. Cosa hai provato, infine?”
Confusamente, per quel che ricordavo, gli raccontai della mia visione e Guglielmo rise: “Per metà stavi ampliando quel che avevi scorto nel libro e per l'altra metà lasciavi parlare i tuoi desideri e le tue paure. Questa è l'operazione che attivano tali erbe. Domani bisognerà parlarne con Severino, credo che ne sappia più di quel che vuol farci credere. Sono erbe, solo erbe, senza bisogno di quelle preparazioni negromantiche di cui ci parlava il vetraio. Erbe, specchi... Questo luogo della sapienza interdetta è difeso da molti e sapientissimi ritrovati. La scienza usata per occultare anziché per illuminare. Non mi piace. Una mente perversa presiede alla santa difesa della biblioteca. Ma è stata una nottata pesante, bisognerà uscire, per ora. Tu sei sconvolto e hai bisogno di acqua e di aria fresca. Inutile cercare di aprire queste finestre, troppo alte e forse chiuse da decenni. Come han potuto pensare che Adelmo si sia gettato da qui?”
Uscire disse Guglielmo. Come se fosse stato facile. Sapevamo che la biblioteca era accessibile da un solo torrione, quello orientale. Ma dove eravamo in quel momento? Avevamo completamente perso l'orientamento. L'errare che facemmo, col timore di non uscire mai più da quel luogo, io sempre vacillante e colto da conati di vomito, Guglielmo abbastanza preoccupato per me, e indispettito per la pochezza della sua scienza, ci diede, ovvero diede a lui, un idea per il giorno seguente. Avremmo dovuto tornare nella biblioteca, ammesso che mai ne uscissimo fuori, con un tizzone di legno bruciato, o un'altra sostanza capace di lasciare segni sui muri.
“Per trovare la via di uscita da un labirinto,” recitò infatti Guglielmo, “non vi è che un mezzo. A ogni nodo nuovo, ossia mai visitato prima, il percorso di arrivo sarà contraddistinto con tre segni. Se, a causa di segni precedenti su qualcuno dei cammini del nodo, si vedrà che quel nodo è già stato visitato, si porrà un solo segno sul percorso di arrivo. Se tutti i varchi sono già stati segnati allora bisognerà rifare la strada, tornando indietro. Ma se uno o due varchi del nodo sono ancora senza segni, se ne sceglierà uno qualsiasi, apponendovi due segni. Incamminandosi per un varco che porta un solo segno, ve ne apporremo altri due, in modo che ora quel varco ne porti tre. Tutte le parti del labirinto dovrebbero essere state percorse se, arrivando a un nodo, non si prenderà mai il varco con tre segni, a meno che nessuno degli altri varchi sia ormai privo di segni.”
“Come lo sapete? Siete esperto di labirinti?”
“No, recito da un testo antico che una volta ho letto.”
“E secondo questa regola si esce?”
“Quasi mai, che io sappia. Ma tenteremo lo stesso. E poi nei prossimi giorni avrò delle lenti e avrò tempo a soffermarmi meglio sui libri. Può darsi che là dove il percorso dei cartigli ci confonde, quello dei libri ci dia una regola.”
“Avrete le lenti? Come farete a ritrovarle?”
“Ho detto che avrò delle lenti. Ne farò delle altre. Credo che il vetraio non attenda altro che un'occasione del genere per fare una nuova esperienza. Se avrà gli arnesi giusti per molare i cocci. Quanto ai cocci, in quella bottega ne ha molti.”
Mentre vagavamo cercando la strada, a un tratto, nel centro di una stanza, mi sentii accarezzare sul volto da una mano invisibile, mentre un gemito, che non era umano e non era animale, echeggiava e in quel vano e in quello vicino, come se uno spettro vagasse di sala in sala. Avrei dovuto essere preparato alle sorprese della biblioteca, ma ancora una volta mi terrorizzai e feci un balzo indietro. Anche Guglielmo doveva aver avuto un'esperienza simile alla mia, perché si stava toccando la guancia, levando in alto il lume e guardandosi intorno
Egli alzò una mano, poi esaminò la fiamma che pareva ora più vivace, quindi si umettò un dito e lo tenne dritto davanti a sé.
“E' chiaro,” disse poi, e mi mostrò due punti, su due opposte pareti, ad altezza d'uomo. Si aprivano ivi due strette feritoie, avvicinando la mano alle quali si poteva sentire l'aria fredda che proveniva dall'esterno. Avvicinandovi poi l'orecchio si sentiva uno stormire, come se di fuori ora tirasse vento.
“La biblioteca doveva pur avere un sistema di areazione,” disse Guglielmo, “altrimenti l'atmosfera sarebbe irrespirabile, specie d'estate. Inoltre queste feritoie provvedono anche una giusta dose di umidità, affinché le pergamene non si secchino. Ma l'accortezza dei fondatori non si è fermata qui. Disponendo le feritoie secondo certi angoli, si sono garantiti che nelle notti di vento i soffi che penetrano da questi meati si incrocino con altri soffi, e si ingorghino entro la fuga delle stanze, producendo i suoni che abbiamo udito. I quali, uniti agli specchi e alle erbe, aumentano il timore degli incauti che qui penetrassero, come noi, senza conoscere bene il luogo. E noi stessi abbiamo pensato per un attimo che dei fantasmi ci alitassero sul viso. Ce ne siamo resi conto solo ora perché solo ora si è levato il vento. E anche questo mistero è risolto. Ma con tutto ciò non sappiamo ancora come uscire!”
Così parlando girovagavamo a vuoto, ormai smarriti, trascurando di leggere i cartigli che apparivano tutti uguali. Incappammo in una nuova sala eptagonale, girammo per le stanze vicine, non trovammo alcuna uscita. Tornammo sui nostri passi, camminammo per quasi un'ora, rinunciando a sapere dove eravamo. A un certo punto Guglielmo decise che eravamo sconfitti, non rimaneva che metterci a dormire in qualche sala e sperare che il giorno dopo Malachia ci trovasse. Mentre ci lamentavamo per la miserevole fine della nostra bella impresa, ritrovammo inopinatamente la sala da cui partiva la scala. Ringraziammo con fervore il cielo e scendemmo con grande allegrezza.
Una volta in cucina, ci buttammo verso il camino, entrammo nel corridoio dell'ossario e giuro che il ghigno mortifero di quelle teste nude mi parve il sorriso di persone care. Rientrammo in chiesa e uscimmo dal portale settentrionale, sedendoci infine felici sulle lastre di pietra delle tombe. L'aria bellissima della notte mi parve un balsamo divino. Le stelle brillavano intorno a noi e le visioni della biblioteca mi parvero assai lontane.
“Com'è bello il mondo e come sono brutti i labirinti!” dissi sollevato.
“Come sarebbe bello il mondo se ci fosse una regola per girare nei labirinti,” rispose il mio maestro.
“Che ora sarà?” domandai.
“Ho perso il senso del tempo. Ma sarà bene trovarci nelle nostre celle prima che suoni mattutino.”
Costeggiammo il lato sinistro della chiesa, passammo davanti al portale (mi girai dall'altra parte per non vedere i seniori dell'Apocalisse, super thronos viginti quatuor!) e attraversammo il chiostro per raggiungere l'albergo dei pellegrini.
Sulla soglia della costruzione stava l'Abate, che ci guardò con severità. “E' tutta la notte che vi cerco,” disse a Guglielmo. “Non vi ho trovato in cella, non vi ho trovato in chiesa...”
“Seguivamo una traccia...” disse vagamente Guglielmo, con visibile imbarazzo. L'Abate lo fissò a lungo, poi disse con voce lenta e severa: “Vi ho cercato subito dopo compieta. Berengario non era in coro.”
“Cosa mi dite mai!” fece Guglielmo con aria ilare. Infatti gli era ora chiaro chi si fosse annidato nello scriptorium.
“Non era in coro a compieta,” ripeté l'Abate, “e non è tornato nella sua cella. Sta per suonare mattutino, e controlleremo ora se riappare. Altrimenti pavento qualche nuova sciagura.”
A mattutino Berengario non c'era.

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