sabato 23 agosto 2008
Secondo giorno - Mattutino
Dove poche ore di mistica felicità sono interrotte
da un sanguinosissimo evento
Simbolo talora del demonio, talora del Cristo risorto, nessun animale è più infido del gallo. L'ordine nostro ne conobbe di infingardi, che non cantavano al levar del sole. E d'altra parte, specie nelle giornate invernali, l'ufficio di mattutino ha luogo quando ancora la notte è piena e la natura tutta addormentata, perché il monaco deve alzarsi nell'oscurità e a lungo nell'oscurità pregare attendendo il giorno e illuminando le tenebre con la fiamma della devozione. Perciò saggiamente la consuetudine predispose dei veglianti che non si coricassero con i confratelli, ma trascorressero la notte recitando ritmicamente quel numero esatto di salmi che desse loro la misura del tempo trascorso, così che, allo scadere delle ore votate al sonno degli altri, agli altri dessero il segno della veglia.
Pertanto quella notte fummo svegliati da coloro che percorrevano il dormitorio e la casa dei pellegrini suonando una campanella, mentre uno andava di cella in cella gridando il Benedicamus Domino a cui ciascuno rispondeva Deo gratias.
Guglielmo e io ci attenemmo all'uso benedettino: in meno di mezz'ora ci apprestammo ad affrontate la nuova giornata, quindi scendemmo in coro dove i monaci attendevano prostrati a terra, recitando i primi quindici salmi, sino a che non entrarono i novizi condotti dal loro maestro. Quindi ciascuno si assise nel proprio stallo e il coro intonò Domine labia mea aperies et os meum annuntiabit laudem tuam. Il grido salì verso le volte della chiesa come la supplica di un fanciullo. Due monaci salirono al pulpito e diedero voce al salmo novantaquattro, Venite exultemus, a cui seguirono gli altri prescritti. E io provai l'ardore di una fede rinnovata.
I monaci erano negli stalli, sessanta figure rese uguali dal saio e dal cappuccio, sessanta ombre a mala pena illuminate dal fuoco del gran tripode, sessanta voci intese alle lodi dell'Altissimo. E udendo questo commovente concento, vestibolo alle delizie del paradiso, mi chiesi se davvero l'abbazia fosse luogo di misteri celati, di illeciti tentativi di svelarli, e di cupe minacce. Perché essa invece ora mi appariva come ricettacolo di santi, cenacolo di virtù, reliquiario di sapienza, arca di prudenza, torre di saggezza, recinto di mansuetudine, bastione di fortezza, turibolo di santità.
Dopo sei salmi iniziò la lettura della sacra scrittura. Alcuni monaci ciondolavano per il sonno e uno dei veglianti della notte si aggirava tra gli stalli con una piccola lampada per ridestare chi si fosse addormentato. Se qualcuno veniva sorpreso in preda a sopore, per penitenza prendeva la lampada e continuava il giro di controllo. Quindi riprese il canto di altri sei salmi. Poi l'Abate diede la sua benedizione, l'ebdomadario disse le preghiere, tutti si inchinarono verso l'altare in un minuto di raccoglimento, di cui nessuno, che non abbia vissuto queste ore di mistico ardore e di intensissima pace interiore, può comprendere la dolcezza. Infine, il cappuccio di nuovo sul viso, tutti si sedettero e intonarono solennemente il Te Deum. Anch'io lodai il Signore perché mi aveva liberato dai miei dubbi affrancandomi dal senso di disagio in cui la prima giornata all'abbazia mi aveva gettato. Siamo esseri fragili, mi dissi, anche tra questi monaci dotti e devoti il maligno fa circolare piccole invidie, sottili inimicizie, ma si tratta di fumo che si dirada al vento impetuoso della fede, appena tutti si riuniscono nel nome del Padre e Cristo scende ancora tra loro.
Tra mattutino e laudi il monaco non torna in cella, anche se la notte è ancora fonda. I novizi seguirono il loro maestro nella sala capitolare a studiare i salmi, alcuni dei monaci restarono in chiesa ad accudire agli arredi sacri, i più passeggiarono meditando in silenzio nel chiostro, e così facemmo Guglielmo e io. I servi dormivano ancora e continuavano a dormire quando, il cielo ancora scuro, ritornammo nel coro per le laudi.
Ricominciò il canto dei salmi, e uno in particolare, di quelli previsti per il lunedì, mi ripiombò nei miei primitivi timori: “La colpa si è impadronita dell'empio, dell'intimo del suo cuore - non v'è timore di Dio negli occhi suoi - agisce con frode al suo cospetto - in modo che la sua lingua diventi odiosa.” Mi parve di cattivo presagio che la regola avesse prescritto proprio per quel giorno un ammonimento così terribile. Né calmò i miei palpiti di inquietudine, dopo i salmi di lode, la consueta lettura dell'Apocalisse, e mi tornarono alla mente le figure del portale che mi avevano tanto soggiogato il cuore e lo sguardo il giorno prima. Ma dopo il responsorio, l'inno e il versetto, quando stava iniziando il cantico del vangelo, scorsi dietro alle finestre del coro, proprio sopra all'altare, un chiarore pallido che già faceva rilucere le vetrate dei loro diversi colori, sino ad allora mortificati dalla tenebra. Non era ancora l'aurora, che avrebbe trionfato durante prima, proprio mentre avremmo cantato Deus qui est sanctorum splendor mirabilis e Iam lucis orto sidere. Era appena il primo flebile annuncio dell'alba invernale, ma fu abbastanza, e fu abbastanza a rinfrancarmi il cuore la lieve penombra che nella navata ora stava sostituendo il buio notturno.
Cantavamo le parole del libro divino e, mentre testimoniavamo del Verbo venuto a illuminare le genti, mi parve che l'astro diurno in tutto il suo fulgore stesse invadendo il tempio. La luce, ancora assente, mi parve rilucere nelle parole del cantico, giglio mistico che si schiudeva odoroso tra le crociere delle volte. “Grazie o Signore per questo momento di gaudio inenarrabile,” pregai silenziosamente, e dissi al mio cuore “e tu stolto di che temi?”
All'improvviso alcuni clamori si levavano dalla parte del portale settentrionale. Mi domandai come mai i servi, preparandosi al lavoro, disturbassero così le sacre funzioni. In quel punto entrarono tre porcai, col terrore sul viso, e si appressarono all'Abate sussurrandogli qualcosa. L'Abate dapprima li calmò con un gesto, come se non volesse interrompere l'ufficio: ma altri servi entrarono, le grida si fecero più forti: “E' un uomo, un uomo morto!” diceva qualcuno, e altri: “Un monaco, non hai visto i calzari?”
Gli oranti tacquero, l'Abate uscì precipitosamente, facendo cenno al cellario che lo seguisse. Guglielmo andò dietro a loro, ma ormai anche gli altri monaci abbandonavano i loro stalli e si precipitavano fuori.
Il cielo era ora chiaro, e la neve per terra rendeva ancora più luminoso il pianoro. Sul retro del coro, davanti agli stabbi, dove dal giorno innanzi troneggiava il grande recipiente col sangue dei maiali, uno strano oggetto di forma quasi cruciforme spuntava dal bordo dell'orcio, come fossero due pali infitti al suolo, da ricoprire di stracci per spaventare gli uccelli.
Erano invece due gambe umane, le gambe di un uomo ficcato a testa in giù nel vaso di sangue.
L'Abate ordinò che si traesse dal liquido infame il cadavere (perché purtroppo nessuna persona viva avrebbe potuto restare in quella oscena posizione). I porcai esitanti si appressarono al bordo e bruttandosi di sangue ne trassero la povera cosa sanguinolenta. Come mi era stato detto, rimestato a dovere subito dopo esser stato versato, e lasciato al freddo, il sangue non si era raggrumato, ma lo strato che ricopriva il cadavere tendeva ora a solidificarsi, ne inzuppava le vesti, ne rendeva il volto irriconoscibile. Si appressò un servo con un secchio di acqua e ne gettò sul volto a quella misera spoglia. Qualcun altro si chinò con un panno a pulirne i lineamenti. E apparve ai nostri occhi il volto bianco di Venanzio da Salvemec, il sapiente di cose greche con cui avevamo discorso nel pomeriggio davanti ai codici di Adelmo.
“Forse Adelmo si è suicidato,” disse Guglielmo fissando quel volto, “ma non certo costui, né si può pensare che si sia issato per accidente sino al bordo dell'orcio e sia caduto per errore.”
L'Abate gli si appressò: “Frate Guglielmo, come vedete qualcosa accade all'abbazia, qualcosa che richiede tutta la vostra saggezza. Ma vi scongiuro, agite presto!”
“Era presente in coro durante l'ufficio?” domandò Guglielmo additando il cadavere.
“No,” disse l'Abate.”Avevo notato che il suo stallo era vuoto.”
“Nessun altro era assente?”
“Non mi pare. Non ho notato nulla.”
Guglielmo esitò prima di formulare la nuova domanda, e la fece in un sussurro, attento che gli altri non udissero: “Berengario era al suo posto?”
L'Abate lo guardò con inquieta ammirazione, quasi a significare che egli fosse colpito al vedere il mio maestro nutrire un sospetto che egli stesso aveva per un istante nutrito, ma per più comprensibili ragioni. Poi disse rapido: “C'era, sta in prima fila, quasi alla mia destra.”
“Naturalmente,” disse Guglielmo, “tutto questo non significa nulla. Non credo che nessuno per entrare in coro sia passato dietro all'abside, e quindi il cadavere poteva già essere qui da varie ore, almeno da dopo che si era andati tutti a dormire.”
“Certo, i primi servi si alzano con l'alba e per questo l'hanno scoperto solo ora.”
Guglielmo si chinò sul cadavere, come se fosse uso a trattare corpi morti. Intinse il panno che giaceva accanto nell'acqua del secchio e deterse meglio il viso di Venanzio. Frattanto gli altri monaci si affollavano spaventati, formando un cerchio vociante a cui l'Abate stava imponendo il silenzio. Tra di loro si fece strada Severino, a cui era affidata la cura dei corpi dell'abbazia, e si chinò presso il mio maestro. Io, per udire il loro dialogo, e per aiutare Guglielmo che aveva bisogno di aver un nuovo panno pulito intriso nell'acqua, mi unii a loro, superando il mio terrore e il mio disgusto.
“Hai mai visto un annegato?” chiese Guglielmo.
“Molte volte,” disse Severino.”E se indovino quello che vuoi intendere, non hanno questo volto, i loro lineamenti sono gonfi.”
“Allora l'uomo era già morto quando qualcuno lo ha buttato nella giara.”
“Perché avrebbe dovuto far questo?”
“Perché avrebbe dovuto ucciderlo? Siamo di fronte all'opera di una mente distorta. Ma ora occorre vedere se ci sono ferite o contusioni sul corpo. Propongo di portarlo nei balnea, di spogliarlo, lavarlo ed esaminarlo. Ti raggiungerò presto.”
E mentre Severino, ricevuta licenza dall'Abate, faceva trasportare il corpo dai porcai, il mio maestro chiese che i monaci fossero fatti rientrare in coro seguendo la strada da cui erano venuti, e che i servi si ritirassero nello stesso modo, in modo che lo spiazzo rimanesse deserto. L'Abate non gli chiese il perché di questo suo desiderio e lo accontentò. Rimanemmo così soli, accanto all'orcio dal quale il sangue aveva debordato durante la macabra operazione di ricupero, la neve intorno tutta rossa, sciolta in più punti dall'acqua che era stata sparsa, e una gran chiazza scura dove il cadavere era stato disteso.
“Un bel pasticcio,” disse Guglielmo accennando al gioco complesso di orme lasciato tutto intorno dai monaci e dai servi. “La neve, caro Adso, è una ammirevole pergamena sulla quale i corpi degli uomini lasciano scritture leggibilissime. Ma questo è un palinsesto mal raschiato e forse non ci leggeremo nulla di interessante. Da qui alla chiesa, è stato un gran accorrere di monaci, da qui allo stabbio e alle stalle sono venuti i servi a frotte. L'unico spazio intatto è quello che va dagli stabbi all'Edificio. Vediamo se troviamo qualcosa di interessante.”
“Ma cosa vorreste trovare?” chiesi.
“Se non si è buttato da solo nel recipiente, qualcuno ve lo ha portato, immagino già morto. E chi trasporta il corpo di un altro lascia tracce profonde nella neve. E allora cerca se trovi qui intorno delle tracce che ti paiano diverse da quelle lasciate da questi monaci vociferatori che ci hanno rovinato la nostra pergamena.”
Così facemmo. E dico subito che fui io, Dio mi salvi dalla vanità, che scoprii qualcosa tra il recipiente e l'Edificio. Erano impronte di piedi umani, abbastanza fonde, in una zona in cui nessuno era ancora passato e, come notò subito il mio maestro, più lievi di quelle lasciate dai monaci e dai servi, segno che altra neve vi era caduta, e quindi erano state lasciate tempo addietro. Ma ciò che più ci parve degno di interesse, era che tra quelle impronte si frammischiava una traccia più continua, come di qualcosa trascinato da chi aveva lasciato le impronte. In breve, una scia che andava dalla giara alla porta del refettorio, sul lato dell'Edificio che stava tra la torre meridionale e quella orientale.
“Refettorio, scriptorium, biblioteca,” disse Guglielmo. “Ancora una volta la biblioteca. Venanzio è morto nell'Edificio, e più probabilmente nella biblioteca.”
“E perché proprio nella biblioteca?”
“Cerco di mettermi nei panni dell'assassino. Se Venanzio fosse morto, ucciso, nel refettorio, nella cucina o nello scriptorium, perché non lasciarlo là? Ma se è morto nella biblioteca occorreva trasportarlo altrove, sia perché nella biblioteca non sarebbe mai stato scoperto (e forse all'assassino interessava proprio che fosse scoperto), sia perché l'assassino probabilmente non vuole che l'attenzione si concentri sulla biblioteca.”
“E perché all'assassino poteva interessare che fosse scoperto?”
“Non so, faccio delle ipotesi. Chi ti dice che l'assassino abbia ucciso Venanzio perché odiava Venanzio? Potrebbe averlo ucciso, in luogo di chiunque altro, per lasciare un segno, per significare qualcosa d'altro.”
“Omnis mundi creatura, quasi liber et scriptura...” mormorai. “Ma di che segno si tratterebbe?”
“Questo è ciò che non so. Ma non dimentichiamo che ci sono anche segni che sembrano tali e invece sono privi di senso, come blitiri o bu-ba-baff...”
“Sarebbe atroce,” dissi, “uccidere un uomo per dire bu-ba-baff!”
“Sarebbe atroce,” commentò Guglielmo, “uccidere un uomo anche per dire Credo in unum Deum...”
In quel momento fummo raggiunti da Severino. Il cadavere era stato lavato ed esaminato con cura. Nessuna ferita, nessuna contusione sul capo. Morto come per incanto.
“Come per castigo divino?” chiese Guglielmo.
“Forse,” disse Severino.
“O per veleno?”
Severino esitò. “Forse, anche.”
“Hai veleni nel laboratorio?” chiese Guglielmo mentre ci avviavamo verso l'ospedale.
“Anche. Ma dipende da cosa intendi per veleno. Ci sono sostanze che in piccole dosi sono salutari e in dosi eccessive procurano la morte. Come ogni buon erborista ne conservo, e le uso con discrezione. Nel mio orto coltivo, per esempio, la valeriana. Poche gocce in un infuso di altre erbe calmano il cuore che batte disordinatamente. Una dose esagerata provoca torpore e morte.”
“E non hai notato sul cadavere i segni di un veleno particolare?”
“Nessuno. Ma molti veleni non lasciano tracce.”
Eravamo giunti all'ospedale. Il corpo di Venanzio, lavato nei balnea, era stato quivi trasportato e giaceva sul gran tavolo nel laboratorio di Severino: alambicchi e altri strumenti di vetro e coccio mi fecero pensare (ma ne sapevo solo per racconti indiretti) alla bottega di un alchimista. Su una lunga scaffalatura lungo il muro esterno, si stendeva una vasta serie di ampolle, brocche, vasi, pieni di sostanze di diversi colori.
“Una bella collezione di semplici,” disse Guglielmo. “Tutti prodotti del vostro giardino?”
“No,” disse Severino, “molte sostanze, rare e che non crescono in queste zone, mi sono state portate lungo gli anni da monaci provenienti da ogni parte del mondo. Ho anche cose preziose e introvabili, frammiste a sostanze che è facile ottenere dalla vegetazione di questi luoghi. Vedi... alghaliga pesto, proviene dal Cataio, e lo ebbi da un sapiente arabo. Aloe socoltrino, viene dalle Indie, ottimo cicatrizzante. Ariento vivo, risuscita i morti, o per meglio dire, risveglia coloro che han perso i sensi. Arsenacho: pericolosissimo, veleno mortale per chi lo ingerisce. Boracie, pianta buona per i polmoni malati. Bettonica, buona per le fratture del capo. Masticie: raffrena i flussi polmonari e i catarri molesti. Mirra...”
“Quella dei magi?” chiesi.
“Quella dei magi, ma qui buona per prevenire gli aborti, colta da un albero che si chiama Balsamodendron myrra. E questa è mumia, rarissima, prodotta dalla decomposizione dei cadaveri mummificati, serve a preparare molti medicamenti quasi miracolosi. Mandragola officinalis, buona per il sonno...”
“E per suscitare il desiderio della carne,” commentò il mio maestro.
“Dicono, ma qui non la si usa in tal senso, come potete immaginare,” sorrise Severino.”E guardate questa,” disse prendendo una ampolla, “tuzia, miracolosa per gli occhi.”
“E cos'è questa?” domandò vivacemente Guglielmo toccando una pietra che giaceva su uno scaffale.
“Questa? Mi è stata donata tempo fa. Credo che sia lopris amatiti o lapis ematiti. Pare abbia varie virtù terapeutiche, ma non ho ancora scoperto quali. La conosci?”
“Sì,” disse Guglielmo, “ma non come medicina.” Trasse dal saio un coltellino e lo appressò lentamente alla pietra. Come il coltellino, mosso dalla sua mano con estrema delicatezza, giunse a poca distanza dalla pietra, vidi che la lama compiva un movimento brusco, come se Guglielmo avesse mosso il polso, che invece aveva fermissimo. E la lama aderì alla pietra con un lieve rumore di metallo.
“Vedi,” mi disse Guglielmo, “è un magnete.”
“E a che serve?” chiesi.
“A varie cose, di cui ti dirò. Ma per ora vorrei sapere, Severino, se non vi è nulla qui che potrebbe uccidere un uomo.”
Severino rifletté un istante, troppo direi, data la limpidità della sua risposta: “Molte cose. Ti ho detto, il limite tra il veleno e la medicina è assai lieve, i greci chiamavano entrambi pharmacon.”
“E non vi è nulla che vi sia stato sottratto di recente?”
Severino rifletté ancora, poi, quasi soppesando le parole: “Nulla, di recente.”
“E in passato?”
“Chissà. Non ricordo. Sono in questa abbazia da trent'anni e sto all'ospedale da venticinque.”
“Troppo per una memoria umana,” ammise Guglielmo. Poi, di colpo: “Parlavamo ieri di piante che possono dare visioni. Quali sono?”
Severino manifestò con gli atti e con l'espressione del viso il vivo desiderio di evitare quell'argomento: “Dovrei pensarci, sai ho tante sostanze miracolose qui. Ma parliamo piuttosto di Venanzio. Cosa ne dici?”
“Dovrei pensarci,” rispose Guglielmo.
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